Nell’Italia degli ultimi decenni si è determinata una geografia politico-sociale pressoché unica nell’Occidente avanzato, basata su una sempre più netta distinzione tra due diverse realtà.
Da una parte, c’è l’Italia - ultramaggioritaria - che rischia tutti i giorni; che è legata al merito, alla competitività, alla trasparenza; che sta sul mercato; che è esposta al vento della concorrenza; che mette in gioco se stessa, la propria famiglia, i propri beni. E’ l’Italia che lavora e produce; è l’Italia dei lavoratori dipendenti che rischiano il posto; è l’Italia delle piccole e piccolissime imprese dell’industria, del commercio, dell’artigianato, dei servizi; è l’Italia dei professionisti; è l’Italia dei disoccupati e dei sottoccupati non tutelati; è l’Italia di quanti, oggi anziani, hanno già dato il loro contributo alla propria famiglia e al Paese.
Dall’altra parte, c’è l’Italia - più piccola e minoritaria - che non vive con queste regole: è l’Italia della rendita, delle corporazioni, dei furbi, dei fannulloni, dei garantiti. Naturalmente, non si può e non si deve fare di ogni erba un fascio, ma questo aggregato è composto dall’Italia dei cattivi dipendenti pubblici, della cattiva politica, della cattiva magistratura, delle cattive banche e della cattiva finanza, della cattiva editoria, dei cattivi sindacati (arricchiti economicamente ma impoveriti politicamente e civilmente dalla trattenuta automatica praticata su lavoratori e pensionati spesso ignari); in altre parole, siamo dinanzi all’Italia che vive in modo parassitario e improduttivo sulle spalle della prima Italia. Questa seconda Italia, pur numericamente più ridotta e marginale, dispone di mezzi e strumenti per farsi rappresentare e addirittura sovrarappresentare in modo potente e efficacissimo; le riesce perfino di accreditarsi come classe generale, come espressione e coscienza del Paese tout-court, come riferimento etico, culturale, civile della Nazione. Si tratta, a ben vedere, dei protagonisti di residui pseudoculturali del ’68 e dei settori più egoisti della borghesia italiana: la loro cifra civile è spesso quella del cinismo, della diffidenza rispetto agli esiti e ai metodi democratici, della chiusura in una dimensione tutta interna al perimetro dell’establishment.
Costoro hanno beneficiato di un doppio paradosso. Intanto, la prima Italia, impegnata a lavorare e a produrre, ha di fatto finito per delegare alla seconda Italia l’organizzazione e la gestione dei beni e dei servizi pubblici (scuola, cultura, università, salute, giustizia, burocrazia), attualmente egemonizzati da una ridotta e potentissima casta. E così, chi rischia ogni giorno per sé e i propri figli, ha affidato e consegnato i beni della coesione sociale ad una classe che vive secondo regole opposte ai principi del mercato, del merito, dell’accountability, e - da quel ceto - subisce perfino giudizi di carattere moralistico, come se la seconda Italia potesse vantare una dimensione etico-politica superiore. In più - paradosso ancora clamoroso - la sinistra tradizionale ha incomprensibilmente scelto di difendere e rappresentare proprio questa Italia peggiore, tradendo ogni speranza di rinnovamento e schiacciandosi a tutela della parte meno dinamica e innovativa della società italiana. Simmetricamente, gli eredi del ’68 e le borghesie più chiuse hanno avuto grande spazio ai vertici della sinistra politica: gli uni captati e cooptati dagli altri, e viceversa, con la trasformazione degli “indipendenti di sinistra” di altre stagioni in vere e proprie guide di ciò che resta dell’apparato del Pci-Pds-Ds-Pd. Lo spettacolo dei banchieri in coda per le primarie prodiane resta una testimonianza plastica di questo fenomeno.
Buona parte di questo fenomeno trae anche origine dal golpe mediatico-giudiziario degli anni ’90, con un’azione selettiva e faziosa volta a colpire ed eliminare soltanto una parte ben individuata del ceto politico di allora, aprendo la strada non solo ad un violento e forzoso “ricambio” di governo, ma anche ad una marcata sudditanza rispetto ad interessi non italiani. A questo proposito, non va dimenticato il modo - grave e dannoso per il Paese - in cui sono avvenute tante cosiddette “privatizzazioni”, che meglio andrebbero definite come vere e proprie spoliazioni: con l’Italia che si è ritrovata improvvisamente priva - in tempi serrati e a prezzi da svendita - di gangli essenziali del proprio sistema produttivo, e senza alcun beneficio concorrenziale e di mercato per i cittadini, ma con un frequente passaggio da monopoli o oligopoli pubblici a monopoli e oligopoli privati.
Diversi lustri dopo quegli eventi, resta questa, in termini strutturali, la sfida tuttora in corso. Da una parte ceti produttivi, dall’altra ceti parassitari e burocratici; da una parte chi spinge per le riforme e il cambiamento, dall’altra chi parteggia per il mantenimento dello status quo e di un comodo immobilismo sociale; da una parte uno schieramento popolare e interclassista, dall’altra una élite autoreferenziale con scarsi ancoraggi nell’Italia reale; da una parte un partito libero di determinare le sue politiche grazie all’outsider Berlusconi, dall’altra un’aggregazione vincolata dal rapporto con alcuni interessi forti che vorrebbero dirigere il Paese senza consenso. E’ espressione evidente di questa contrapposizione il fatto che il centrodestra berlusconiano, oltre a conservare intatta la sua tradizionale area politico-elettorale, ottenga oggi anche il doppio dei voti operai rispetto al Pd e alla sinistra, e sappia anche beneficiare di un ulteriore spostamento di voti riformisti e di sinistra moderata verso il Pdl.
Esattamente per queste ragioni, il Popolo della Libertà è capace di sciogliere antiche contrapposizioni e antinomie, e in primo luogo quella tra datori di lavoro e lavoratori, oggi storicamente uniti dall’esigenza vitale di puntare sulla crescita e sull’espansione dell’area del benessere. Questo movimento politico entra nel nuovo secolo sciogliendo e portando a sintesi le antitesi del Novecento: è l’incontro dei riformatori liberali e solidali, e può orgogliosamente dirsi - nello stesso tempo - conservatore e rivoluzionario. Conservatore perché è un grande movimento capace di esprimere il senso comune di un popolo, la sua tradizione e le sue radici; rivoluzionario perché è il partito che vuole e sa sconfiggere l’Italia delle rendite e del privilegio. Solo un grande movimento legato ai valori popolari, infatti, ha poi l’ansia e la tensione necessari per essere il motore della modernizzazione, il partito-guida dell’Italia che cambia e che cresce.
In questo quadro, si inseriscono le sfide della stagione politica che si apre. Noi arriviamo al dopo-crisi essendo riusciti, nell’ultimo anno, a garantire la migliore condizione possibile dei conti pubblici, e insieme una buona difesa della base produttiva e occupazionale. Il Governo Berlusconi ha agito per perseguire tre obiettivi fondamentali: tenuta della finanza pubblica e rispetto dei parametri europei, liquidità per le famiglie e le imprese, allargamento della rete di protezione sociale. E’ anche grazie a questa azione che l’Italia ha retto meglio di altri Paesi, nonostante i due grandi vincoli rappresentati dal debito pubblico (che impedisce di usare la finanza pubblica come volano per favorire l’uscita dalla crisi) e dal declino demografico (che ci priva di quantità e qualità di capitale umano). Su questa strada, e sulla definizione di un nuovo e più dinamico assetto di relazioni industriali, è stata mantenuta la coesione sociale, nonostante che l’opposizione e un pezzo di sindacato abbiano vanamente cercato di provocare un autunno caldo: e invece, si è stretta intorno al Governo la gran parte delle rappresentanze sociali e imprenditoriali, un blocco sociale leale e responsabile rispetto all’Italia e agli italiani, capace di perseguire l’interesse nazionale.
Così, dopo neanche un anno e mezzo dall’apertura dell’attuale legislatura, il fatto nuovo è che il Governo Berlusconi e la maggioranza stanno non solo assicurando una rigorosa ed efficace gestione del presente e il più rapido aggancio possibile verso la ripresa, ma, con le riforme messe in campo, hanno davvero iniziato a mettere in discussione l’area della rendita, del privilegio, dell’immobilismo sociale. In questo, cioè su questo fondamentale obiettivo strategico, Pdl e Lega sono già uniti: di più, rappresentano un unico blocco riformatore, un’unica rappresentanza sociale e politica del popolo dei produttori rispetto al blocco dei difensori dello status quo.
Questa è la posta in gioco, e insieme l’oggetto della rivoluzione in corso. Di fronte all’importanza di tutto ciò, è assolutamente naturale e fisiologico che, in un partito già del 40% e che punta al 50%+1 dei voti, vi siano su altri e più specifici temi, a partire dalle questioni eticamente sensibili, approcci e opinioni diverse, che contribuiranno ad arricchire e irrobustire il Popolo della Libertà.
E davvero si può dire che al centro dell’intera azione politica del Governo e della maggioranza ci sia la persona, e - soprattutto - l’allargamento della sfera della decisione e della scelta privata rispetto a quella della decisione e della scelta pubblica e collettiva. E’ così per la riscrittura del rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione impostata dal Ministro della Funzione Pubblica; è così per le iniezioni di meritocrazia e responsabilità che animano le riforme incardinate dal Ministro dell’Istruzione dell’Università; è così per il doppio obiettivo di non lasciare nessuno indietro e di costruire un più dinamico e meno ingessato sistema di relazioni industriali da parte del Ministro del Welfare; è così per il recupero di efficienza in sede civile e di terzietà del giudice rispetto alle parti in sede penale, sulla base delle riforme perseguite dal Ministro della Giustizia; è così per la razionalizzazione, e in qualche caso la riduzione, delle risorse pubbliche destinate dal Ministro della Cultura a iniziative spesso improduttive, incapaci di vivere sul mercato e di attrarre risorse e investimenti, desiderose sempre e solo di sussidi e finanziamenti pubblici, e perfino ignare dei rischi di una statalizzazione e politicizzazione della cultura; è così per ogni altro settore dell’azione dell’Esecutivo, sempre in linea con un approccio di sussidiarietà centrato sul favor per la concorrenza, per la scelta tra più opzioni nei servizi essenziali, per l’intervento del privato o eventualmente dell’ente territoriale più vicino alla persona.
Esistono alcune sfide strategiche, da questo punto di vista, che potrebbero segnare i prossimi lustri della politica italiana:
· la piena realizzazione del federalismo fiscale, capace di mettere sotto controllo la spesa pubblica ad ogni livello territoriale, di innescare meccanismi competitivi tra territori nell’attrazione di risorse e investimenti, di determinare una maggiore e più penetrante vigilanza dei cittadini sui loro amministratori e sull’uso e il prelievo del denaro pubblico, di contribuire ad una significativa compressione del nero e dell’evasione fiscale, e, soprattutto, di creare le condizioni per l’avvio della riduzione della pressione fiscale nei confronti sia delle persone che delle imprese;
· l’attuazione di un grande Piano per il Sud da realizzare attraverso l’efficienza, la produttività, la trasparenza, la lotta alla corruzione, la qualità della burocrazia e il federalismo fiscale; portando a compimento le grandi opere e le infrastrutture materiali e immateriali necessarie allo sviluppo del Mezzogiorno; infine, chiedendo all’UE di credere nel Mezzogiorno non solo in nome della coesione interna ma anche di una coesione esterna;
· una politica estera di rilancio della nostra economia capace di cogliere le grandi occasioni di sviluppo offerte, da un lato, dall’emergere prepotente sulla scena mondiale delle economie dell’Asia dell’Est e del Sud-Est (con al centro la Cina) e dell’Asia del Sud (con al centro l’India) e, dall’altro, dalla fuoriuscita dalla crisi;
· l’avvio della detassazione della contrattazione di secondo livello, favorendo rinnovi contrattuali maggiormente legati al territorio e alle aziende, valorizzando per tutti l’elemento della produttività;
· la ripresa di un percorso di liberalizzazioni che apra davvero il mercato, che non sia solo rivolto contro la base sociale ed elettorale del centrodestra, com’è sistematicamente avvenuto nella stagione di governo del centrosinistra, e che non sia concepito “contro”, cioè per spaventare o impoverire qualcuno, ma “per”, cioè per aprire nuove opportunità al cittadino-consumatore-utente: in questo senso, appare ineludibile la messa in discussione dell’attuale, appesantito e anticoncorrenziale assetto dei servizi pubblici locali;
· una maggiore possibilità di scelta per il cittadino, e insieme di concorrenza tra pubblico e privato, nei settori della scuola, dell’università e della sanità, attraverso i meccanismi del “buono” o del credito d’imposta;
· un nuovo assetto istituzionale più adeguato alle esigenze di velocità e decisione della modernità in cui siamo immersi, centrato sul presidenzialismo, sul monocameralismo, sulla netta riduzione del numero dei parlamentari, sull’abolizione delle Province.
***
Rispetto alla fase politica che si apre, il Pdl, pur appena nato, può già far tesoro di tre grandi punti di forza rispetto al campo avverso. Il primo è naturalmente rappresentato dalla leadership popolare, fortissima, non consumata dai rituali della politica, di Silvio Berlusconi. In secondo luogo, il centrodestra ha manifestato la capacità, nei momenti elettorali, di puntare su una assoluta compattezza programmatica, isolando le poche questioni su cui chiedere agli elettori di esprimere il proprio consenso, costruendo una base programmatica immediatamente comprensibile ed evitando i programmi-zibaldone. Infine, il nuovo Pdl può già farsi forte di una rete di think tank, centri studi, fondazioni, giornali, riviste, agenzie, come luoghi chiamati non ad un generico o astratto dibattito, ma alla concreta produzione di software, di contenuti politici, di “attrezzi” e proposte immediatamente trasferibili nel momento elettorale e poi soprattutto in quello di Governo.
Nasce e si afferma così un grande partito moderno e soprattutto post-ideologico. Nessuno è esposto al rischio di perdere qualcosa della propria identità, delle radici e delle matrici culturali e politiche a cui è legato: il tema, invece, è quello di una offerta politica che non deve mai assumere profili e connotati non inclusivi, di chiusura, o legati a riflessi minoritari. Il che non vuol dire assumere sfuggire alle scelte: anche sulle questioni più complesse o controverse, solo che lo si voglia, c’è tutto lo spazio per giungere a una sintesi e a un punto di equilibrio ragionevole. Poi, sarà compito di una vita di partito intensa e segnata da regole precise, così come del network di realtà culturali che ruota intorno al partito, animare la discussione e garantire piena cittadinanza anche alla posizione che, nell’una o nell’altra occasione, non sarà risultata prevalente. Il resto sarà virtuosamente affidato alla grande medicina del “mercato” politico-elettorale. E’ quello che lo straordinario popolo degli elettori del Pdl chiede al nostro - e soprattutto loro - partito. (l'Occidentale)
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