In anteprima dal nuovo libro quasi autobiografico: i sovietici invadono Budapest, alla Einaudi si preparano le contromosse.
«Quanto alle mutandine, figurano solo nel titolo, cui non ho saputo rinunciare. Nel libro non ce ne sono, non c’è gossip, non ci sono rivelazioni piccanti né ricordi maliziosi (anche se, volendo...)». Carlo Fruttero si schermisce nel risvolto di copertina e si mette a giocare col lettore più meno come il gatto col topo. Ma da un gatto così filosofico sappiamo che cosa aspettarci. «Mutandine di chiffon», il suo libro che esce oggi da Mondadori (pp. 248, euro 18,50), quasi autobiografico (lui dice di «memorie retribuite», perché in parte scritte per i giornali), racconta una lunga storia di cultura, non solo per aneddoti. Comincia, almeno cronologicamente, quando il giovane Carlo scopre che il tetro padrone di casa ha composto canzoni come appunto «Mutandine di chiffon» con lo pseudonimo di Bel-Ami, chissà se davvero in omaggio a Maupassant, e va avanti con esilaranti, forse commoventi, episodi di vita editoriale, libri, Paesi, culture. C’è molta Torino, naturalmente. C’è il lungo e ferreo sodalizio con Franco Lucentini; ci sono gli amici come Calvino o Citati; c’è la casa editrice di via Biancamano, i due Giulii (Einaudi e Bollati), come nel brano che anticipiamo in questa pagina. E c’è lui, Carlo Fruttero, entomologo dei tic, sommelier di grandezze.
Nel 1956 l’Urss mandò i carri armati per reprimere la rivolta scoppiata in Ungheria, Paese comunista, governato da comunisti, abitato da comunisti. E lì da noi, in via Biancamano, fu come se si fosse infilata in corridoio una granata di T-34. Un’esplosione che sbriciolava anni di materialismo dialettico, centralismo democratico, terza via, via italiana al comunismo, aperture e chiusure ai cattolici, sfumature eretiche, temibili deviazionismi e migliaia e migliaia di saggi, studi, articoli interamente dedicati al Paese Guida; miliardi e miliardi di confronti, polemiche, posizioni e distinzioni, conciliaboli, anatemi, riavvicinamenti, una cosmica massa di parole che di colpo suonavano vane, se non peggio, come le chiacchiere dei due meschini che aspettano Godot. Una strage, un massacro polverizzante. In quel corridoio bianchissimo volavano tutte le schegge, le porte si aprivano, sbattevano, volti cupi o arrossati si affacciavano, si fronteggiavano, scattavano verso un nuovo arrivato, sostavano due minuti a gruppetti, si rintanavano in due o tre dentro a un ufficio, ne saltavano fuori per infilarsi nell’ufficio di fronte, le sedie stridevano, le scrivanie si facevano sedili angolosi. I portacenere traboccavano, i telefoni squillavano in continuazione. Non stava fermo nessuno, nessuno lavorava. Le graziose segretarie nei loro grembiulini gialli, rossi, azzurri passavano compunte con in mano cartelline e fogli che nessuno si dava la pena di firmare. – «Dottore, ci sarebbe...», «Fammi il piacere, Cilli, non vedi cosa sta succedendo?» –.
Ma nessuno sapeva cosa stesse succedendo. Qualcuno aveva portato su una radio, ma i notiziari italiani erano insoddisfacenti. Si sparava, c’erano le barricate, ma nessun reporter era lì a farci sentire il crepitio della battaglia in diretta. Fu convocata la signorina Dridso, una delle segretarie. Era russa e non si sapeva bene come e perché fosse arrivata in via Biancamano. Si cercò, tra sibili e disturbi catarrosi, di captare Radio Mosca. Cosa dicevano? La Dridso non ci capiva niente. Ma allora Radio Budapest, il russo non era in qualche modo connesso con l’ungherese? No, per niente; né la Dridso, né nessun altro sapeva una dannata parola di ugrofinnico. L’editore usciva ogni tanto dal suo ufficio, corrucciato, distantissimo, la voce sempre più nasale, strascicata. E tutti: e a Roma, cosa dicono a Roma? La speranza era che Einaudi fosse in contatto con la direzione del partito, che avesse qualche riservatissima primizia. Ma il partito ancora non si pronunciava. Era una rivoluzione? O non, piuttosto, una controrivoluzione? Una sommossa giovanile spontanea e casuale? O non, piuttosto, un’operazione sovversiva, fomentata e manovrata da traditori al servizio di potenze straniere? La tensione montava, vibrava, qualche finestra veniva aperta, e perché non facciamo un salto a prenderci un buon caffè da Platti, un ricco panino semidolce? Chiedevano un parere anche a noi agnostici o comunque scettici sul paradiso sovietico. Ti rendi conto, carri armati comunisti che stritolano un Paese comunista! Compagni massacrati da compagni, è incredibile, è pazzesco! Ma no, non è affatto pazzesco, è normale, rispondevamo noi da vere carogne. [...]
Era autunno, il buio scese presto, le castagne d’India cadute dagli ippocastani del corso brillavano nella luce dei lampioni. Chissà se anche nei viali di Budapest...? Bollati e sua moglie Graziella, io e mia moglie Maria Pia andammo a cena in collina nella bella villa di un’amica che, senza fare un vero e proprio salon, ospitava volentieri diverse «personalità» eminenti, emergenti o quantomeno decenti, di stanza o di passaggio a Torino. Nello sfondo c’era una schiera di possibili informatori: Giulio, «il padrone», suo padre, presidente della Repubblica fino a poco prima, tutta una ragnatela tra ministeri, funzionari di partito, alti comandi militari, servizi segreti, giornalisti eccetera, da cui era plausibile aspettarsi notizie fondate, certe. L’idea era che, attraverso la casa editrice, potessero filtrare fino a quegli accoglienti divani informazioni più precise.
Eravamo al dessert quando suonò il telefono. La padrona di casa corse di là, tornò affannata. – «Giulio (Bollati)! Giulio (Einaudi) ti vuole» –. Bollati si precipitò con le sue lunghe gambe, sparì nello studio. Ecco. Finalmente avremmo saputo. Stavamo lì coi nostri cucchiaini in mano cercando di parlar d’altro. Bollati si riaffacciò un istante: carta, gli serviva della carta, la penna ce l’aveva. La padrona di casa sparì con lui, tornò presto al tavolo ma ne sapeva come prima. Caffè, chi prende il caffè? Una grappa di pere? Un armagnac? Passavano i minuti, dieci, venti, mezz’ora. Cosa combinavano di là i due Giulii al telefono? La radio era accesa ma non dava spago a nessuno. Combattimenti, barricate, morti, colonne di profughi e nient’altro. Le signore sussurravano colpevolmente, s’erano cioè ritratte dalla cruenta ma un po’ lunga battaglia di Budapest, scivolando nel sottovoce di figli, vestiti, domestiche, esasperanti artigiani. Ma ti posso dare l’indirizzo del mio, se vuoi. È bravissimo e niente caro.
Infine la porta dello studio si riaprì e Bollati riapparve. Che succedeva? L’America mandava i paracadutisti? I russi erano stati cacciati? S’erano ritirati? E Nagy? E il generale Maleter? E il partito? Cosa diceva il Partito comunista italiano? Bollati aveva in mano dei fogli e senza rispondere guardò me. Un appello all’Onu. Questo era stato deciso da Einaudi e dai suoi consiglieri più fidati. Lui stesso, Bollati, lo aveva messo a punto parola per parola con l’editore e gli altri attorno a lui. Un lungo appello all’Onu che ora io, anglista ufficiale della maison, avrei tradotto in inglese.
Mi sentii morire, lottai disperatamente per evitare quella prova funesta. A cosa poteva mai servire un simile documento? Nella bolgia di una così grave crisi internazionale cosa gliene poteva fregare all’Onu dell’indignazione di una casa editrice torinese, illustre finché vuoi ma insomma... Una goccia nell’oceano, un’iniziativa perfettamente inutile e perfino ridicola, se permetti. Ma loro non la pensavano così, la casa editrice aveva una notevole influenza morale, un alto prestigio etico in Italia e in Europa, la sua voce doveva essere presa in considerazione dal mondo intero. Ma scusa, ma se tutti, proprio tutti, mandavano appelli deploranti e auspicanti, non c’era circolo di bridge, non c’era confraternita di tranvieri che non tempestasse New York di esortazioni urgentissime, drammaticissime... Niente da fare. [...]
L’anglista fu più o meno rinchiuso di là, nello studio, e messo fermamente all’opera. Ora, chiunque abbia non accademicamente ma affettuosamente frequentato la lingua e la cultura inglesi, sa che un appello compilato nel gergo della sinistra italiana, di ieri come di oggi, non ha alcuna possibilità di trasposizione. Non sono le parole, è tutta la secolare storia filosofica, politica, di costume, di civiltà, contro cui vieni a sbattere come contro una porta di ferro. Non so che fine abbia fatto quel documento, forse l’avrò gettato, fatto a pezzetti, forse un giorno salterà fuori in qualche mio cassetto. C’erano le solite cose, «ferma presa di posizione», «fiduciosa speranza», «valori democratici», «ripudio d’ogni violenza», «sangue innocente», «comune sforzo per la Patria», e così avanti da un cliché all’altro. L’aria fritta è intraducibile, ma le tentai tutte. Tagliare, condensare, rifare, fondere, ribaltare. Ma poi arrivava Bollati che di sopra la mia spalla ripristinava la versione base, il «padrone» (ma se non sa l’inglese!) il padrone, ti dico, controllerà, andrà su tutte le furie, devi essere il più letterale possibile. Alla fine mi arresi e composi (a quel punto, anzi, con perversa scrupolosità) un testo di cui ancora oggi ho confusamente vergogna.
E adesso? S’era fatto molto tardi, di là tutti sbadigliavano e si stiracchiavano immersi nelle poltrone, potevamo andarcene a letto? Eh no, la missione non era finita, ancora toccava a noi spedire il telegramma. E come? Alle due passate del mattino? Ma dalla posta centrale, aperta ventiquattr’ore su ventiquattro, non lo sapevi? Su, presto, non c’è un minuto da perdere, l’Onu freme nell’attesa del nostro appello. Mia moglie accompagnò a casa la moglie di Bollati, Bollati mi prese su sulla sua Volkswagen color bronzo e scendemmo stridendo per le curve della collina, attraversammo la città e arrivammo al palazzo della posta centrale, che era davvero aperta, aveva davvero un impiegato solo e mesto dietro uno sportello. Ecco qui il testo, battuto (da me) a macchina, una bella pagina di belle parole inglesi. Quello lesse, cominciò a contare muovendo le labbra, col dito che correva lungo le righe e alla fine ci disse quanto costava. Fu qui che la farsa entrò nella rivolta di Budapest. Bollati tirò fuori il portafoglio, constatò che i soldi non bastavano, si rivolse con il mento a me che constatai la stessa cosa. Negli spazi eleganti e un po’ algidi della casa editrice circolavano idee, fermenti, sperimentazioni, proposte di altissima, indiscussa qualità intellettuale; ma, di soldi, per qualche ragione ne giravano pochi. Mettemmo insieme le nostre sommette ma nemmeno così si arrivava alla cifra. Pensai di slancio a una soluzione modello Pinocchio: chi c’era di là, al palazzo dell’Onu, che potesse controllare? Nessuno. Il testo italiano dell’appello avrebbe avuto il dovuto risalto su qualche giornale, mentre laggiù nessuno (come ripetevo da ore) ci avrebbe fatto il minimo caso se non arrivava il nostro fottuto telegramma. Quindi stracciamolo e andiamocene a casa.
Ma Bollati, che era un uomo d’onore e non un burattino di legno, rifiutò nettamente. Allora potrei provare a scorciare, riassumere, dimezzare le parole... No, il testo ormai era quello e così doveva arrivare ai massimi livelli del potere internazionale. Ma allora come facciamo coi soldi? È semplice, andiamo a chiederli al «padrone». Lasciammo quel salone pieno di ombre e rimbombi dicendo all’impiegato che saremmo presto tornati e andammo sotto al domicilio del «padrone», che abitava su un corso non lontano a un piano rialzato. Non c’era un’anima in giro, rare automobili frusciavano sotto gli alberi. Ecco, quella è la finestra della sua camera da letto, mi informò Bollati, assiduo frequentatore della casa. Cercammo qualche manciata di ghiaia sul controviale, la tirammo contro i vetri. Niente. Dopo una simile giornata di battaglia, Einaudi doveva essersi addormentato come un carrista sovietico. Altri sassolini, altro silenzio. E le castagne d’India? Meglio di no, rischiamo di spaccare un vetro.
Non restava che il metodo Arsenio Lupin. Bollati incrociò le mani a staffa, io mi tolsi le scarpe, mi issai su quel sostegno, raggiunsi la finestra, cominciai a battere con le nocche. Più forte, diceva Bollati, semistrozzato dallo sforzo. Ripresi a picchiare sempre più rumorosamente e infine la finestra si aprì, Giulio Einaudi apparve con un’aria appena stupita in un bel pigiama celeste. Guardò in giù, ci vide, non disse una parola. Io saltai a terra e Bollati gli spiegò affannosamente la situazione. Il «padrone» non sorrise, non fece il minimo commento; sparì, riapparve coi soldi e, sempre senza pronunciare una parola, richiuse la finestra e si ritirò a letto. Noi due tornammo alla posta centrale, pagammo il dovuto, risalimmo esausti in macchina. Era stato un giorno di troppe parole, dette, gridate, ascoltate, lette, scritte, decifrate, e quel silenzio veniva come un soave soffio di piume. Immaginavo vagamente un remoto impiegato dell’Onu che in questi istanti, cravatta slacciata, stanco quanto noi, registrava il nostro appello a New York. Cosa ne avrebbe fatto? Dove lo avrebbe messo? In archivio? Nel cestino? In quella macchina che trancia i fogli in tante striscioline? Non ne seppi più niente, in ogni caso, e non ne parlai mai più con Einaudi e Bollati. (la Stampa)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento