Noi italiani siamo complici della dittatura cubana, così come della persecuzione e repressione. Nella lunga agonia del regime, nell’interminabile sopravvivenza dei fratelli Castro, si moltiplicano i volenterosi che lamentano il silenzio, circa la ferocia di quegli aguzzini. Solitamente si tratta di gente rimasta muta e che, per sicurezza, s’è finta anche sorda, in modo da non dovere ascoltare noi che ne parlavamo. Anche il ministro degli esteri, Franco Frattini, s’indigna per l’italico tacere. Fa bene, ma cerchi di non dimenticare che siamo soci dei dittatori. Lo divenimmo nel 1994, quando Telecom Italia era nelle mani del governo, e lo siamo rimasti. Solo noi, i radicali e qualche fissato c’incaponimmo a denunciare il fatto che gestire i telefoni cubani è uno scandalo.
Telecom Italia, difatti, possiede più di un quarto della monopolista Empresa de Telecomunicaciones de Cuba (Etecsa). Il fatturato è in gran parte dovuto al traffico internazionale originato e terminato nell’isola caraibica, e siccome ai cubani è proibito avere rapporti con il mondo libero, oltre a essere squattrinati e, quindi, non dei buoni clienti, ne deriva che il traffico è alimentato prevalentemente dai turisti. Se quel Paese lo avessimo conquistato, si potrebbe dire che si sta praticando una politica colonialista, invece siamo andati a far società con chi opprime il popolo, che è peggio. Non solo, nel 2003, con il decreto legislativo 180, il regime ha imposto alla compagnia telefonica di bloccare i “malintenzionati” e controllare attivamente che non sia consentito l’uso “fraudolento e non autorizzato del mezzo”, dove per tale s’intende la rete internet. Siamo in affari con i carnefici, tanto per dirla in modo sfumato.
Quando quell’investimento fu fatto lo ritenni un errore, ed ho sempre pensato che abbia anche fruttato illeciti arricchimenti. Oggi, però, non chiedo di uscirne. La soluzione non è la vendita della quota, ma far pesare la presenza di un operatore telefonico radicato nel mondo libero. Possiamo scegliere: essere gli ultimi soci dei tiranni moribondi o essere fra i primi compartecipi della rinascita. Il tempo di agire è adesso, anzi, si sta esaurendo. A Cuba non ci sono solo i dissidenti che si lasciano morire di fame, c’è un popolo che di fame muore senza volerlo, soffocato dalla mancanza di libertà.
In questa parte del mondo, però, si reagisce con torpore. Quella che chiamiamo cultura è, da noi, un’accolita d’analfabeti luogocomunisti. Hanno mai letto Reinaldo Arenas? Lo avessero fatto saprebbero, da molti anni, che il regime di Fulgencio Batista era più libero di quello di Fidel Castro. Meno oppressivo, meno invadente. Sento già gli ululati, il ragliare di mafia, prostituzione e corruzione. Perché, com’è la Cuba d’oggi? Ci sono vagonate d’europei, e d’italiani, che sbarcano per andare a profittare del sesso a buon mercato. La corruzione è ovunque, e te la spiega qualsiasi tassista. Ma i nostri letterati sono come i magistrati cresciuti leggendo le loro sciocche prose: adoratori del Che mai esistito. Il Guevara paladino degli oppressi, pronto a battersi al fianco di Fidel. Salvo il fatto che il secondo fece fuori il primo. I nostri letterati avrebbero dato l’anima che non hanno, per farsi fotografare accanto a Gabriel Garcia Marquez, che si faceva fotografare accanto al despota cresciuto dai gesuiti, cosa volete che sappia, gente simile, della libertà?
A tutta la nostra sinistra, ma anche a buona parte del mondo cattolico, piaceva quest’uomo vestito da militare che pretendeva d’ospitare missili nucleari per minacciare la democrazia statunitense. Lo amavano al punto da non volere vedere l’evidenza: non è solo un guerrafondaio, è anche un razzista. Parlavano della lotta contro l’analfabetismo, ma tacevano del fatto che prima di lui si poteva scrivere e pubblicare, mentre dopo poteva essere solo lui, maniacalmente logorroico, a tenere la parola, e tacevano dei lager tropicali, agghiaccianti forni crematori a cielo aperto. Quanti di loro, ancora oggi, vanno a Cuba, cercando tracce della propria dignità perduta, tornano malinconici, raccontano dei vicoli barocchi, temono che, presto, saranno spazzati via dal turismo di massa. Peccato che in quei tuguri viva un popolo ammassato e senza diritti, con la tessera alimentare, pronto a contrabbandare ogni cosa, a cominciare da se stesso.
La colpa, secondo loro, fedeli alla pedagogia del regime, è dell’embargo americano. Quell’embargo ha una colpa: non funziona, è aggirato, oggi anche demolito. Della dittatura castrista non ci sarà nulla da conservare, ma i primi a dovere essere buttati via sono quelli che gli fecero le fusa.
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