«La grande crisi della finanza globale? Il frutto dell’esplosione di un sistema finanziario- ombra cresciuto come un gigantesco party alcolico senza regole» pieno di ragazzi ubriachi «fatti entrare dalle agenzie di "rating" che all’ingresso distribuivano carte d'identità false». Così Paul McCulley di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo, descrive le genesi di una tempesta che, nel 2008, ha portato l’intero sistema creditizio mondiale sull’orlo dell’autodistruzione. I colpevoli sono molti, ma un ruolo particolare l’hanno avuto strane creature private con una funzione pubblica: le agenzie che con i loro voti decretano l’affidabilità di un titolo obbligazionario emesso da una società, ma anche dei titoli del debito pubblico di decine di Stati sovrani. Dovevano essere giudici competenti e imparziali e invece hanno promosso (a raffica) e bocciato (quasi mai) sulla base più della loro convenienza privata che di valutazioni oggettive. Due anni fa, concedendo il massimo dei voti alle obbligazioni-salsiccia di moda a Wall Street, hanno aperto la strada verso il disastro. Oggi, con bocciature intempestive del debito di alcuni Paesi europei, rischiamo di rendere ingestibile una crisi che da Atene si sta già propagando fino alla penisola iberica. Bocciature, peraltro, dettate più da una volontà di autoconservazione e dal timore di essere accusati di inerzia che dal cambiamento di dati che erano e sono sotto i loro occhi.
Un downgrading ha senso se l’agenzia, grazie alla sua professionalità, a una superiore capacità d’analisi, capisce in anticipo che la posizione di un Paese si sta deteriorando. Intervenire quando i numeri sono già noti in tutta la loro gravità e il mercato ha già reagito, chiedendo maggiori interessi sui titoli di Stato emessi da Paesi con conti pubblici in disordine, aumenta solo la confusione e rischia di vanificare i tentativi dei governi di correre ai ripari. Un giudizio competente e indipendente sull’affidabilità degli investimenti sicuramente serve, ma si può continuare a lasciare una funzione pubblica tanto delicata nelle mani di società private che le gestiscono in modo così irresponsabile? Non è certo il caso di nazionalizzare questa funzione, ma non conforta di certo vedere le banche centrali o agenzie federali come la Sec (l’istituto che vigila sulla Borsa Usa)—che sicuramente dispongono di professionalità interne e autorevolezza superiori a quelle delle agenzie di «rating»—affidarsi a loro per i giudizi sulla base dei quali vengono selezionati gli investimenti più rilevanti. Certo, lo fanno in base alle regole che i governi si sono dati e che sono rispecchiate anche dagli accordi di Basilea. Forse è ora di prendere atto che non è più possibile tenere in piedi un sistema di «rating » diffusosi a partire dagli anni 70, limitandosi a piccoli correttivi.
Da anni si discute dei conflitti d’interesse che affliggono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch, i tre oligopolisti del «rating». All’inizio di questo decennio la legge americana Sarbanes-Oxley ha cercato di regolarli più strettamente dopo lo scandalo Enron i cui titoli venivano ancora giudicati un buon investimento quattro giorni prima della sua bancarotta. Correttivi inutili, vista la facilità con la quale l’aurea «tripla A» è stata concessa ancora nel 2006-2007 a una marea di emissioni di titoli basati su mutui «subprime», ad alto rischio. La Commissione del Congresso Usa che venerdì scorso ha «torchiato» in un’audizione i capi di queste agenzie, accusati di aver anteposto il profitto e il volume del giro d’affari delle loro società al rigore delle analisi, ha accertato che il 93 per cento dei titoli che avevano ricevuto il massimo voto di affidabilità, sono stati declassati a «spazzatura». La gravità della crisi del debito sovrano di un numero crescente di Stati richiede un monitoraggio serio e azioni di stabilizzazione, non l'agitazione di agenzie che sembrano muoversi, ormai, come variabili impazzite. (Corriere della Sera)
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