martedì 27 aprile 2010

L'albero della bugia. Davide Giacalone

Alcuni vandali hanno spogliato l’albero antistante l’abitazione che fu di Giovanni Falcone, a Palermo, ma ben altri, e assai più oltraggiosi, sono gli sfregi che quel servitore dello Stato ha subito. In vita e in morte. Su quell’albero s’erano accumulati messaggi generici, attestazioni di stima tardive, frutti di compiti scolastici, per poi invecchiare nell’indifferenza. Come la garitta blindata dentro cui si trovava la guardia armata incaricata di sorvegliare l’ingresso: monumento all’inutilità, incapace anche d’arrugginire, poi dimenticata lì. A imperitura memoria del fallimento. Chi ha strappato quei fogli è un nessuno che tenta di mettersi in luce, magari agli occhi di un fesso che si sente importante, perché lecca il sedere a uno che bacia i piedi a un altro che fa da cameriere ad un ultimo cretino, che girando armato si sente potente. Ma chi isolò e affondò l’opera di Giovanni Falcone, impedendo poi il lavoro di Paolo Borsellino, non è un nessuno: è una politica che oggi si nasconde.

Falcone fu l’esatto contrario di quel che i procuratori della Repubblica poi divennero, degenerando e, oggi, difendendo quel poco commendevole risultato. Accettò subito il nuovo processo, di tipo accusatorio, mentre gli altri si opponevano in coro. Capì la conseguente e necessaria separazione delle carriere, contro la quale, ancora oggi, a dispetto dell’esempio portato da tutto intero il mondo civile, i suoi avversari d’un tempo si battono. Fu accusatore implacabile e documentato, mai dipendente dalle parole dei pentiti. Non credette mai a nessuno di questi individui, giungendo ad accusarli di calunnia laddove non trovava i riscontri, le prove. L’esatto opposto di quel che accade oggi, con il delirio mandato in mondovisione. Per tutti questi motivi, e altri ancora, fu avversato da quanti vedevano nell’azione giudiziaria una continuazione della politica con altri mezzi. Si trovò contro Luciano Violante, capo della corrente giudiziaria comunista, ed Elena Paciotti, capo della corrente di Magistratura Democratica. E perse, fu sconfitto, isolato, costretto alla fuga.

Gli diedero lezioni d’antimafia, fino all’infamia di descriverlo connivente con i mafiosi, come si permise di fare Leoluca Orlando Cascio. Sono tutti alleati, oggi, i nemici di Falcone, e si trovano tutti nella sinistra. Il che non significa affatto che nella destra ci siano solo persone ammirevoli e coerenti, ma significa che la sinistra deve ancora fare i conti con quelle colpevoli miserie.

Paolo Borsellino era uomo diverso, per cultura, per preferenze politiche, per stile di lavoro, senza che questo, pur con qualche episodio polemico, abbia mai compromesso il legame con Falcone. Morto il quale, quel collega ritenne doveroso prendere in mano l’inchiesta “mafia-appalti”, costruita dai ros dei carabinieri secondo i dettami della tecnica falconiana. Il valore di quell’inchiesta stava tutto in un punto: saper valutare tanti singoli fatti con una visione d’insieme. Che fine fece, l’inchiesta, quando Borsellino fu spedito a raggiungere Falcone? Fu smembrata per competenza territoriale, quindi distrutta.

Se prendete la cronologia di questi fatti e la mettete a fianco di quella relativa alla presunta trattativa fra la mafia e pezzi dello Stato scoprite, senza molta sorpresa, che coincidono. Posto che Falcone e Borsellino erano, già in vita, dei perdenti, e posto che il mondo politico con il quale lavorò Falcone (chiamato al ministero della giustizia da Claudio Martelli, durante il governo di Giulio Andreotti) era stato cancellato, secondo voi, ove mai la mafia stesse trattando, lo faceva con gli sconfitti o con i vincitori? E i vincitori erano quanti avevano isolato e neutralizzato Falcone e Borsellino.

Ci torno, su queste storie archiviate nella menzogna, e lo faccio con tutta la rabbia di cui sono capace, perché viene il voltastomaco a leggere l’indignazione provocata da uno o più mezze seghe che strappano quattro fogli ingialliti, accompagnata dal quasi ventennale depistaggio sul lavoro e sul martirio dell’uomo la cui memoria si finge di tutelare. E lo faccio perché ci sono tanti giovani, a Palermo e in Italia, che magari rivolgono un pensiero affettuoso e riconoscente, a quei due magistrati, ma lo fanno dopo avere bevuto il latte rancido della loro riduzione a icone svuotate, illuminate dai ceri insinceri, accesi da mani mendaci. Abbiamo il dovere, davanti a quei ragazzi, per quello che possono intendere e potranno capire, di non lasciare mai passare nel silenzio l’ennesima offesa a quei due Uomini.

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