Ma si può veramente pensare che le Regioni debbano introdurre un "test d'italiano" per gli immigrati che vogliono aprire un esercizio commerciale? Davvero la Lega pensa di consolidare consensi con uscite di questo genere? Per Cesare Pambianchi, presidente della Confcommercio di Roma, quella dell'onorevole Silvana Comaroli è "una proposta ridicola". Ridicola è l'aggettivo giusto.
Riflettiamo un secondo. L'immigrazione crea problemi nella misura in cui è legata a fenomeni criminosi. Il guaio è che ognuno ha gli immigrati che si merita. A Montecarlo non se ne lamentano. Un Paese produttivo e dinamico, nel quale i diritti di proprietà sono severamente garantiti, il crimine non paga, e in cui cultura e istituzioni incentivano l'imprenditorialità, tenderà ad attrarre persone motivate, "rusconi" pronti a impegnarsi in un ambiente severamente competitivo. I cervelli che fuggono, da qualche parte arrivano - e quelli da cui arrivano, son ben contenti che vada così.
Un Paese invece insofferente nei confronti della cultura del mercato, dove uno è tanto più socialmente apprezzato quanto meglio riesce ad "infrattarsi", a trovare rifugio dal gioco concorrenziale grazie a questa o a quella camarilla, e per giunta un Paese in cui la criminalità organizzata è radicata e quella disorganizzata è sovente tollerata, "chiamerà" gente di altra risma. Parliamoci chiaro. É probabile che gli immigrati che vivono bordeggiando la legge siano gli stessi che desiderano aprire una attività commerciale alla luce del sole? Direi di no. Certo, ci può essere il riciclaggio. Se quello però è il caso, gli strumenti legali per perseguire chi delinque ci sono tutti. E vero che Al Capone è stato mandato in galera per evasione fiscale, ma pensare di fermare il candeggio di soldi poco puliti col patentino del congiuntivo sarebbe da neuro. Né crediamo sia questo il tentativo di chi ha proposto questa norma. Che ha solo giocato il più vecchio dei trucchi della politica: facciamo a chi la spara più grossa.
É talmente ovvio che uno si vergogna a scriverlo: gli imprenditori e i commercianti, di norma, non sono accademici della crusca. E va benissimo, perché non è quello il terreno su cui provano il loro valore. Il loro mestiere consiste nell'intercettare i bisogni delle persone, nel servire i consumatori al meglio delle loro capacità. Molto spesso, nel lavorare come dei matti. Il commercio al dettaglio è una attività massacrante, fatta di sveglie all'alba, di magazzini da riordinare, di lotte con i grossisti, di schermaglie infinite con il fisco. Da questi mestieri, spaventati dalla concorrenza della grande distribuzione, gli italiani si ritraggono sempre di più, fanno fatica a stare nei margini, preferiscono lavori più tranquilli e meno incerti.
Gli emigranti devono affrontare le pene dell'inferno per approdare nei nostri porti. A lasciare i Paesi d'origine sono spesso i migliori, quelli che si sentono più forti, quelli che sperano di potercela fare in un luogo che non conoscono, quelli che sanno che le loro competenze e la loro voglia di fare potranno trovare mercato anche lontano da casa. La vita dell'emigrante è fatta di amarezze, di incomprensioni, di fatica. Non è vero che gli elettori della Lega non lo capiscano. Nel loro privato, fra loro sono tantissimi ad avere collaboratori provenienti da altri Paesi, amici con la pelle più scura, badanti che assistono i loro vecchi. Gli elettori della Lega sono più sensibili ai temi della sicurezza, temono che certi sobborghi siano bombe ticchettanti, intuiscono che dire integrazione è una cosa, realizzarla è un'altra. È proprio perché queste questioni sono serie, che fa rabbia la tendenza di parte della dirigenza leghista a buttarle in pulcinellate. Gli immigrati regolari costituiscono un problema? In tutta evidenza, no. Soprattutto: quegli immigrati che non solo sono in regola, ma addirittura vogliono avviare un'attività imprenditoriale, costituiscono un problema? No. E' necessario che sappiano l'italiano? Capperi. Ma un edicolante che non distingue "L'Espresso" dal "Corriere dello Sport" avrebbe vita breve, e così un fruttivendolo che vende pere per carciofi. O impara in fretta, o chiude. La Lega ha anche proposto di "vietare le insegne nelle lingue extracomunitarie", concetto poroso che include, stando a quanto hanno scritto ieri i giornali, arabo e cinese. Né l'una né l'altra sono lingue periferiche nel mondo, ed è probabile che le insegne in arabo e cinese si moltiplicheranno negli anni a venire anche in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, o in via Condotti a Roma. Il turismo arabo e cinese è indubbiamente lucroso, e proprio come il cinese a Milano che impara l'italiano per vendere, così i commercianti da che mondo è mondo s'ingegnano per comunicare coi loro potenziali clienti. Che facciamo, vietiamo le scritte in cinese a tutti, inclusi Prada e Vouitton, o solo a chi il cinese lo ha imparato da bambino?Vogliamo che le Regioni facciano attività di formazione a vantaggio dei nuovi commercianti? Può finire in una mangiatoia della specie peggiore, ma in linea di principio sarebbe una richiesta comprensibile. Sicuramente è pericoloso indebolire l'attività economica e allontanare nuovi imprenditori, di cui abbiamo disperatamente bisogno, per lo sterile esercizio di immaginare la più surreale delle barriere all'entrata. La sbarra abbassata del parlar forbito, come se da un dettagliante quello volessimo, e non merci buone e prezzi bassi. (IBL)
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2 commenti:
Grazie per la lezione...
Lei dice che l'immigrazione costituisce un problema solo nella misura in cui genera risvolti criminali, e cita Montecarlo, con i suoi benestanti e onestissimi immigrati. Al di là degli aspetti criminogeni, io vedo invece nell'immigrazione extra-europea tutta una serie di problemi gravissimi: sociali e culturali.
In primo luogo una minaccia del nostro habitat tradizionale: se voglio visitare la Turchia, vado a Istambul - non a Berlino. Se cerco il minareto marocchino, vorrei vederlo a Marrakech, non mi piace trovarmelo sul Lago di Como.
E' vero: il singolo immigrato, se è onesto, integrato e ha lavoro, non costituisce un problema. Anzi, può essere un arricchimento: come la comunità giapponese di Amburgo, che una volta all'anno "offre" all'intera città uno splendido spettacolo pirotecnico. Ma ad Amburgo - dove ho vissuto per trent'anni - non ho mai avuto la sensazione di trovarmi in una "Klein-Tokio", anzi: la comunità giapponese è un modello di discrezione. In alcuni quartieri, come ad Altona, dove la quota di immigrati turchi supera, in molte vie, il 70%, avevo invece la sensazione di trovarmi in Anatolia: sporcizia, odori, chiasso, degrado, paesaggio umano (vestiti, negozi e cosí via) non erano piú amburghesi e neanche tedeschi, ma turchi.
Per evitare questo "arricchimento" molte generazioni di europei (dalla "Serenissima" all'Impero asburgico, dai polacchi ai croati) hanno versato fiumi di sangue - sia proprio che avversario: e sono riusciti a difendere, nei secoli, la propria terra, con le proprie radici. Non mi è quindi facile capire come qualcuno possa farsi promotore del proprio suicidio identitario.
Si obietterà: perché suicidio? Integriamo gli stranieri - e il problema si risolve. Chi argomenta in tal senso parla di integrazione (cioè del risultato) senza parlare di "integrabilità" (quindi del presupposto del risultato). L'integrabilità implica almeno due condizioni: in primo luogo la capacità (intellettiva-comportamentale-culturale) di integrarsi, ed in secondo luogo la volontà di farlo.
Un'onesta analisi della realtà vera - quella, per intendersi, che si incontra agevolmente in tutte le metropolitane d'Europa, o nei sobborghi delle grandi città - dimostra che la grandissima maggioranza degli immigrati non soddisfa nessuna delle due condizioni.
Gli extracomunitari non europei - clandestini o meno - sono persone che cercano condizioni di vita diverse da quelle che i loro padri hanno conquistato cacciando i nostri padri dal cosiddetto "III Mondo", con le guerre anti-coloniali del 1945-1965. Sono persone che fuggono dalla miseria, dal dissesto dei Paesi di cui hanno voluto (giustamente) rilevare la conduzione, per essere finalmente "padroni a casa propria", cioè casa loro. Non sono persone che vogliono diventare italiane, tedesche o svedesi... ma persone che pretendono - di fatto - accoglienza in casa nostra. Non chiedono: pretendono, perché neache ci rispettano.
Molti di loro (la gran parte degli islamici) nutrono anzi un fondamentale disprezzo per noi, per il nostro mondo decadente, per il modo di vivere delle donne europee (tutte "prostitute", come le definiva un mio compagno d'università turco), per la nostra mancanza di fede, per la nostra assenza di valori.
Questa "immigrazione non integrabile" (anche se non criminale/criminogena) non può che portare, inevitabilmente, ad una società multiculturale, con tutte le relative conseguenze: e questo, caro Mingardi, è un problema serissimo.
Chi ama una società multiculturale ha tutto il diritto di sceglierla: ed è libero di andare dove ne trova una esistente - ma non ha il diritto di imporla a chi vuole mantenere la propria tradizione, la propria matrice culturale. Voler restare signori a casa propria, difendere la propria casa è un diritto. Pretendere di entrare in casa altrui è invece violazione di domicilio - e come tale un reato.
@Lupo di zolfo
Grazie per il tuo pacato, sentito e ben argomentato intervento.
Mi pare condivisibile e spunto per una seria riflessione.
Sarei lieto di avere tanti commenti come i tuoi, anche in dissenso: lo scambio di opinioni arricchisce e cambiare idea è sintomo di ragionevolezza.
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