La frase pronunciata l’altro giorno da Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, è destinata a restare negli annali. Impegnato in un’importante trattativa sulla riforma del sistema previdenziale, al cui sfascio i sindacati hanno dato un contributo di prima grandezza, il dirigente della principale organizzazione che raccoglie i pensionati e i lavoratori ha infatti dichiarato che “se si pensa di affrontare il tema della previdenza con la calcolatrice in mano non va bene”.La tesi è chiara: tutta la discussione sul rinvio dell’età pensionabili e sullo “scalone” andrebbe affrontata indipendentemente dagli oneri che questa o quella scelta possono far ricadere sull’economia, poiché – a giudizio di Epifani – vi sarebbero questioni sociali che travalicano la semplice logica di chi osserva l’andamento dei conti e le prospettive degli enti previdenziale. Ma tale modo di ragionare è disastroso.
Se avessero davvero a cuore le sorti dei pensionati attuali e di quelli futuri (oltre che della società nel suo insieme), i sindacati dovrebbero costantemente consultare le cifre e incessantemente picchiare i tasti della calcolatrice, come fa ogni “buon padre di famiglia” alle prese con scelte finanziarie importanti e che non voglia esporre i propri cari a difficoltà di ogni genere. Facendo qualche calcolo in più potrebbe tra l’altro scoprire che per offrire un futuro a quanti già sono anziani o lo saranno nei prossimi decenni è assolutamente necessario lavorare maggiormente (allungando l’età della pensione) e, soprattutto, introdurre meccanismi più orientati sulla responsabilità: passando dal sistema attuale ad uno a capitalizzazione.Certo i sindacalisti non usarono la calcolatrice quando pretesero (e ottennero) che un gran numero di lavoratori del pubblico impiego fossero pensionati dopo 14 anni, sei mesi e un giorno. Scelte come questa non furono isolate e ora non dobbiamo stupirci se – dovendo pagare da decenni la pensione a chi ha lavorato e contribuito così poco – ora non si è assolutamente in condizione di far vivere decentemente tanta povera gente.
In quella frase di Epifani è percepibile un disprezzo dei conti e della logica economica che attesta un’irresponsabilità condivisa da ampi settori del nostro ceto dirigente. Se è vero infatti che i sindacati hanno avuto un ruolo rilevante nella gestione fallimentare dell’Inps, è egualmente fuori discussione che essi condividono tali responsabilità con molti altri: dai partiti alla Confindustria. E in quel disprezzo per le crude cifre c’è il tratto italianissimo di una demagogia tanto fatua quanto gravida di penose conseguenze.Solo guardando le cifre per quello che sono e analizzando con serietà i dati reali, invece, sarà possibile far quadrare i conti di un Paese in cui (fortunatamente) la vita si allunga sempre più, ma in cui (sfortunatamente) il numero di quanti lavorano e tengono su la baracca resta bassissimo. Se l’Italia non cresce a sufficienza, d’altra parte, è anche perché tassazione e prelievo previdenziale rendono troppo cari i nostri prodotti e poco interessante investire da noi.
Contrariamente a quanto ritengono in molti, l’economia non si occupa in primo luogo della ricchezza (tanto è vero che non vi era economia nel Paradiso terreste), ma della povertà. Una riforma delle pensioni che liberalizzi il sistema e permetta ad ognuno di accantonare il capitale necessario ad avere una vecchiaia serena è una necessità soprattutto per i ceti deboli. Peccato che Epifani non se ne avveda.
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