Dell'intervista di ieri di Walter Veltroni sul Corriere della Sera, si potrebbero sottolineare i passi in avanti fatti dal sindaco-candidato segretario rispetto a D'Alema e Prodi su questioni non secondarie: così quando afferma che non farà mai il premier senza essere prima eletto o che per governare bene serve un programma chiaro. E accontentarsi di questi risultati. Ma le parole del sindaco di Roma non contengono solo queste considerazioni o l'inevitabile propaganda (tipo gli spostamenti dei campi rom) o la solita ipocrisia veltroniana, sono anche profondamente segnate dal peggiore dei vizi della nostra sinistra: la totale delegittimazione dell'avversario. Ancora più deteriore perché presentata come apertura: si «apre» a Giulio Tremonti sull'alzabandiera a scuola ma si chiede anche di studiare le lettere dei condannati a morte della Resistenza perché «la denigrazione» dell'antifascismo fatta dalla «destra» durante l'estate ha fatto «accapponare la pelle» al sindaco-candidato.
Non c'è solo il tradizionale veltroniano «voglio questo e il suo contrario», la bandiera e le lettere: che se lo si fa continuare proporrà di leggere il libro di Pansa per rimediare alle esagerazioni post 25 aprile e poi di cantare Bella ciao per emendarsi della lettura di Pansa. No, in quel «accapponare la pelle» c'è tutto il vizio oscuro della delegittimazione. Così, quando apre al dialogo sulle riforme istituzionali con il centrodestra, non può mancare di paragonare le sparate verbali antifisco di Bossi all'odio «operativo» e dunque sommamente pericoloso che il movimento rappresentato in Parlamento da Francesco Caruso promuove contro riformisti come Tiziano Treu e Marco Biagi. O quando predica una ragionevole lotta alla delinquenza giovanile, non può non rintracciare le radici degli omicidi interadolescenziali di Londra o del delitto di Garlasco nell'individualismo thatcheriano o nelle tv berlusconiane. L'incapacità di superare il lato oscuro della sinistra italiana (la totale delegittimazione dell'avversario), proprio quando si afferma «non odierò più nessuno», non è frutto solo dell'abituale baloccarsi veltroniano con tutti i luoghi comuni più comuni del politically correct, nasce innanzi tutto dal non fare i conti con la propria storia.
Lo si coglie anche nell'intervista di ieri. Veltroni dice: «Sono dieci anni che sono per il Partito democratico». Ma quattro anni fa al congresso Ds insieme a Fabio Mussi e Sergio Cofferati contestava Piero Fassino e Massimo D'Alema perché troppo moderati. Perché non spiega come si sono evolute le sue posizioni? E a proposito, a quei tempi, per non esporsi troppo con Fassino, sosteneva che un sindaco non dovesse schierarsi nelle contese di partito: che cosa è cambiato da allora?
C'è chi dice che la realtà delle cose spingerà Veltroni a superare quell'approccio delegittimante che io trovo particolarmente pericoloso. Può darsi, per il momento l'unica frase che trovo integralmente onesta nell'intervista di Veltroni, è questa: «So che talora si possono dire cose che non si pensano». La frase è emblematica di uno che negli anni Settanta si è iscritto alla Federazione giovanile «comunista» e poi ha detto di non essere mai stato comunista...
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