Alberto Statera, nell’editoriale di “Repubblica” del 4 ottobre, conferma inconsapevolmente, ma documentatamente, la mia teoria liberale della lotta di classe e la rapina criminale di centinaia di miliardi di euro consumata ogni anno dalla classe politico-burocratica parassitaria ai danni dei lavoratori dipendenti e indipendenti del privato, cioè di quello che io chiamo il Popolo dei Produttori. L’editoriale di Statera è il risultato di una documentata inchiesta da lui condotta appunto sul tema dei pubblici dipendenti e dei cosiddetti fannulloni, che il temerario moralizzatore celebrato dal “Corriere della Sera” e dall’informazione di regime, prof. Andrea Ichino, valuta, bontà sua, all’1% (dicesi uno per cento) dei nostri burocrati.
Come al solito, beninteso, Statera racconta la realtà scandalosa, anzi criminale, da lui trovata nei nostri ministeri in modo benevolo e scherzoso:
“Versione roman-ministeriale – scrive – dell’”Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Tutti aspettano una misteriosa Pina. Chi è Pina? E’ l’unica che può trovare il bando di concorso chiesto dal docente in attesa. Ma oggi la Pina fa tardi perché, mi dicono, “c’ha er pupo malato”. Verso l’una, però, Pina arriva con la borsa della spesa e finalmente consegna al professore il documento richiesto.“Questa – commenta il prof. Guido Melis, ordinario di Storia della Pubblica Amministrazione – è solo l’epitome di una storia di vinti”. Ma chi sono i vinti ? “Sono tutti quei pazzi che nell’ultimo secolo hanno tentato di riformare la pubblica amministrazione”, conclude Melis, senza naturalmente chiedersi perché mai egli stesso insegni strapagato la storia di questa follìa. “Buon ultimo - scrive Statera - il prof. Luigi Nicolais che ha proposto, tra i fischi, la decimazione dei dipendenti pubblici”.
In realtà Nicolais, che Statera tenta di trasformare in un intrepido eroe della sburocratizzazione, non ha proposto nessuna decimazione degl’intoccabili statali e parastatali ma solo di mandarne qualche decina di migliaia in pensione anticipata (con costi addizionali per il contribuente) assumendo poi un “giovane meritevole”, cioè reclutato tra i leccascarpe e i raccomandati dei politici e dei super-burocrati, ogni due o tre parassiti pre-pensionati. Ma continuiamo a leggere la prosa burlona di Statera, che ci spiega come la bravura della Signora Pina abbia illustri precedenti:
“Qualche anno fa, nella sede del Dipartimento della Funzione Pubblica (erede dei vari Ministeri per la Riforma Burocratica succedutisi per decenni, n.d.r.) nessuno sapeva più trovare gli atti della varie Commissioni che della mitica Riforma si erano occupate. Persi, persi, irrimediabilmente persi! Esclamava sconsolato uno degli archivisti proprio mentre transitava per caso accanto a lui il dott. Lo Bianco il quale, impietosito, gli fa: “Forse io so dove sono”. E lì comincia la spedizione nei sotterranei del Ministero tra cunicoli dimenticati, polvere, ragnatele, roditori, fino a giungere al “Magazzino Tappeti”. Ed è lì che, in una scansia sospesa in mezzo a rotoli e rotoli di tappeti, tra i biglietti delle raccomandazioni campane e abruzzesi ai ministri Remo Gasparri e Paolo Cirino Pomicino, si ritrovano finalmente i precedenti progetti di riforma della pubblica amministrazione”…
L’assunto di “Repubblica” è che tutti ridiamo divertiti, leggendo l’arguta prosa di Statera. Ma in realtà non c’è niente da ridere. Quelle carte smarrite, quei sotterranei luridi e caotici e la stessa indulgente ironia di Statera sono altrettanti monumenti alla disgustosa arroganza di una burocrazia parassitaria che succhia il sangue a chi lavora davvero per oziare nei pubblici uffici e seppellire appunto tra i topi e le ragnatele i progetti dei “pazzi” che, a parole, tentano da decenni di riformarla ma da decenni sono cinici manutengoli del suo parassitismo.
Come Arlecchino, anche Alberto Statera si confessa ridendo e conclude la sua documentata inchiesta sulla nostra burocrazia con una diagnosi davvero scandalosa:
“Nei nostri Ministeri vige la cosiddetta regola del tre, in base alla quale un impiegato lavora, un altro fa solo il minimo indispensabile e il terzo non fa assolutamente nulla: il che, tradotto in numeri arrotondati significa che, su 3.600.000 dipendenti pubblici, 1.200.000 lavora davvero (salvo la pausa-caffè e la pausa-spesa), un altro milione e 200 mila sta un po’ sulle scartoffie, salvo beinteso “due spaghetti, qualche sigarettina, qualche imboscamento nei bagni, e poi tante, tante chiacchere e risate” (come racconta un’ex impiegata su Internet); e un altro milione e 200 mila è fatto di fannulloni totali, scientifici, indefettibili, indelebili.” Fin qui Statera.
Il brillante editorialista di “Repubblica” invita al sorriso e all’ironia, senza neppure rendersi conto che sta ridendo della truffa colossale e criminale consumata ai danni del Popolo dei Produttori da una classe politico-burocratica parassitaria che da un lato ruba da sempre a quel popolo centinaia di miliardi di euro per mantenere se stessa nella sicurezza, nel privilegio e nell’ozio e dall’altro criminalizza milioni di lavoratori indipendenti del privato accusandoli di derubare lo Stato con l’evasione fiscale.Per parte mia, comunque, considero preziosa l’inchiesta di “Repubblica”, nonostante le sue sgradevoli e irresponsabili facezie perché, con la “regola del tre” allegramente sbandierata nella sua conclusione, essa offre una conferma politicamente insospettabile (in quanto pubblicata sull’organo magno dello statalismo italiano) di ciò che vado sostenendo da molti anni nei miei libri e in questi miei interventi: e cioè che in primo luogo i nostri dipendenti pubblici sono almeno il doppio e forse il triplo del necessario, che in secondo luogo, come scrivevo già 15 anni fa in un editoriale de “L’Opinione” , “non si può risanare la finanza pubblica senza dimezzare la burocrazia statale e locale”, che in terzo luogo i veri nemici del progresso e dell’equità sociale non stanno tra i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori e i liberi professionisti, come fingono di credere i demagoghi della sinistra, ma proprio tra i burocrati e i loro padrini politici statalisti e che, infine, la vera lotta di classe non è quella tra lavoratori dipendenti e indipendenti del privato (come vuol far credere da cent’anni almeno la sinistra tradizionale) ma quella tra la classe politico-burocratica sfruttatrice e il popolo sfruttato dei produttori dipendenti e indipendenti del privato.
E’ in questa cornice di ripugnante sfruttamento e parassitismo che il recente inno di Padoa Schioppa alle bellezza ineffabile delle tasse assume il carattere non più d’una semplice scemenza di accademico (che dalle tasche dei Produttori del privato preleva da sempre le sue sontuose prebende), ma d’una vera e propria apologia di reato. (il blog del Solista)
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