lunedì 22 ottobre 2007

Un decalogo per sconfessare le bugie della sinistra sulla precarietà. Antonio Mambrino

Dopo che anche il Papa Benedetto XVI ha lanciato il suo grido di dolore contro la precarietà, emergenza etica e sociale del nostro tempo, noi sostenitori del libero mercato ci siamo sentiti un po’ smarriti. Se anche il Santo Padre ci abbandona, come possiamo sperare di riuscire ad arginare l’offensiva restauratrice di chi in nome di un malinteso “diritto al lavoro” rivendica regole che rischiano di soffocare l’economia e di impoverire la società?
In realtà, le cose non stanno così. Dalle parole del Papa non è affatto possibile trarre alcuna conseguenza a sostegno del movimento contro la precarietà allestito dalla sinistra radicale. Il Papa si è, infatti, limitato a sottolineare come una condizione di precarietà possa minare la stabilità e lo sviluppo di una società è un dato indiscutibile. Una considerazione quasi scontata che diventa tanto più vera se riferita a società avanzate che hanno raggiunto un elevato grado di benessere. Naturalmente – fatta questa ovvia constatazione – occorre interrogarsi cui caratteri che connotano lo stato di precarietà, sulle sue cause e sui possibili rimedi.
A tale preciso scopo, abbiamo provato a fissare un breve decalogo in materia che ci sembra utile per evitare che si consolidino gli equivoci ed i pregiudizi che sinora hanno caratterizzato il confronto politico sul tema.
1. L’incertezza del singolo scambio non necessariamente si traduce in incertezza di sistema. Le economie di mercato si sono storicamente affermate, consentendo alle società occidentali enormi progressi economici e sociali, proprio come strumenti per ridurre le incertezze negli scambi senza ricorrere a vincoli rigidi imposti dall’alto (ogni mattina non c’è nessuna certezza che io possa trovare il pane al mercato, ma come d’incanto, lo trovo. Mentre, nelle economie di piano vi è qualcuno obbligato a farmelo trovare ma, come di incanto, – dopo tre ore di fila – il pane è finito).
2. La stabilità del lavoro è un valore che deve essere riferito non al singolo rapporto di lavoro (a tempo indeterminato, con garanzia reale contro il licenziamento) ma alla condizione lavorativa del singolo, il quale deve avere la ragionevole certezza di trovare in tempi rapidi un nuovo lavoro quando il precedente venisse meno.
3. Per la particolare rilevanza sociale del bene “lavoro” è opportuno che il sistema appronti, per il periodo di transizione da un lavoro all’altro, degli strumenti a tutela di coloro che perdano in lavoro e si mettano a cercarne uno nuovo.
4. Il crescente ricorso a forme contrattuali flessibili è un tratto comune a tutte le società occidentali e deriva dal profondo mutamento dell’economia globalizzata, che ha registrato un enorme processo di velocizzazione degli scambi e richiede maggiore flessibilità nell’organizzazione delle attività di impresa. Le percentuali di lavoro flessibile del nostro Paese sono inferiori alle medie europee.
5. Dati alla mano, la legge Biagi (o come pudicamente la chiamano i suoi detrattori, la legge n. 30) non ha svolto alcun ruolo nella crescita del lavoro flessibile. La legge accanto ad alcune innovazioni poco utilizzate dalla pratica, ha modificato in senso restrittivo i vecchi co.co.co., sostituiti dai co.co.pro. (Innovazione che, ad esempio, ha consentito agli Ispettorati del lavoro di costringere alcune grandi imprese di call center di assumere gli operatori addetti alle telefonate in entrata.)
6. Separatamente occorre considerare il fenomeno del precariato nelle pubbliche amministrazioni (circa 500.000 persone) che nulla ha a che vedere con la legge Biagi ma deriva unicamente da una malintesa cultura privatistica nella riforma della burocrazia, dalle tentazioni clientelari della nostra classe politica e dalla rigidità nella gestione del personale pubblico dovuta anche allo strapotere sindacale.
7. Se nel nostro Paese vi sono fenomeni di utilizzo distorto della flessibilità ciò è dovuto essenzialmente alla rigidità delle tradizionali regole del diritto del lavoro, le quali hanno sostanzialmente determinato una frammentazione del mercato del lavoro in cui vi sono gli insider tutelati come in nessun altro Paese e gli outsider privi di tutela e sino a qualche tempo fa anche di rappresentanza sindacale. La scelta dell’imprenditore di ricorrere al lavoro flessibile è spesso motivata dall’esigenza di ridurre i rischi derivanti dalla tutela rafforzata del lavoro tradizionale.
8. L’unica strategia per aggredire il fenomeno e cercare di ridurre le distanza fra insider e outsider, facendo sì che la scelta dell’imprenditore sia motivata unicamente da ragioni di carattere imprenditoriale e non anche di arbitraggio normativo. La strategia opposta – irrigidire i vincoli costringendo gli imprenditori ad assumere a tempo indeterminato – avrebbe l’unico risultato di ridurre l’occupazione e favorire il lavoro nero (forma assoluta del precariato).
9. Occorre in particolare avere il coraggio di riproporre la questione del superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che fissa il principio della tutela “reale” contro i licenziamenti (ovvero la possibilità per il giudice di disporre il reintegro sul posto di lavoro) in favore di un sistema di tutela risarcitoria in caso di licenziamento, commisurata alla durata del rapporto di lavoro, in modo da superare l’attuale segmentazione del mercato del lavoro.
10. Parallelamente occorre dotare il sistema di un efficace rete di ammortizzatori (indennità di disoccupazione involontaria, incentivi al reinserimento ed alla formazione) dirottando una quota significativa delle risorse destinate alla spesa sociali che oggi sono in gran parte utilizzati per tenere in piedi un sistema pensionistico anacronistico, che consente il ritiro in età ancora attiva. Tale sistema danneggia i giovani due volte. Perché drena enormi risorse che potrebbero essere altrimenti destinate. Perché fa si che i pensionati ancora attivi siano dei formidabili concorrenti (semmai in nero) sul mercato del lavoro. (l'Occidentale)

1 commento:

Anonimo ha detto...

.
Ho un figlio che lavora come precario.
Sarei più contento se avesse un contratto a tempo indeterminato.
Ma nessuno è, purtroppo, disposto ad assumere il primo venuto senza possibilità di ripensamento.
E' triste, ma se il datore di lavoro avesse avuto dei vincoli, non l'avrebbe assunto e oggi ci sarebbe un disoccupato in più.
O mangiar questa minestra ...