giovedì 3 gennaio 2008

L'Iraq svanito dalle primarie. Massimo Gaggi

I candidati repubblicani alla Casa Bianca si accusano l'un l'altro di non essere abbastanza duri contro gli immigrati clandestini, di sfiorare l'intolleranza religiosa o di avere posizioni ambigue sull'aborto e le unioni gay. Tra i democratici la sfida verte soprattutto sulle paure dei «nuovi poveri» che si sentono le vittime della globalizzazione e le difficoltà dei ceti a reddito medio che temono di perdere il lavoro, pagano un mutuo più salato per una casa che continua a perdere valore e non hanno una copertura sanitaria decente. Nella campagna elettorale che inizia oggi col voto in Iowa c'è un grande assente: l'Iraq. Il tema della guerra nel Golfo che fu decisivo per la rielezione di Bush nel 2004 e che ancora all'inizio dell'estate, nei sondaggi Zogby, veniva citato dal 56 per cento degli elettori come determinante per la scelta del prossimo presidente degli Stati Uniti, è praticamente sparito dalle priorità della gente e dai comizi dei candidati. Il successo della strategia di rafforzamento della presenza militare Usa nelle città irachene, la diminuzione delle vittime di attentati, non ha prodotto squilli di tromba: ha solo fatto scivolare la questione fuori dall'agenda elettorale. Già a settembre, quando il generale David Petraeus riferì al Congresso sui primi risultati positivi ottenuti grazie a the surge, la nuova strategia adottata in Iraq, gli americani che consideravano la guerra in Medio Oriente la questione principale della campagna erano scesi al 35 per cento. A Natale si sono ridotti addirittura al 23 per cento: meno di quelli che si dichiarano più preoccupati dal rischio di una recessione e dalla debolezza del dollaro. Non che la politica estera abbia perso d'importanza: il problema iracheno è ancora tutto lì, ma il prossimo presidente dovrà decidere anche che fare in Afghanistan, come muoversi nella crisi pachistana, come fronteggiare l'Iran. Per non parlare della necessità di contenere l'espansionismo cinese e l'«imperialismo energetico» di Putin. Questioni importanti, ma che non riescono a diventare prioritarie, anche perché su di esse gli elettori hanno idee confuse. Anche i candidati hanno messo da parte l'Iraq: il netto calo delle vittime americane degli attentati negli ultimi mesi ha sottratto ai leader democratici gli argomenti retorici antiguerra. Anziché attaccare Bush, ora Hillary Clinton, Obama ed Edwards tendono a prendersela col governo di Bagdad per la sua incapacità di capitalizzare in termini politici i successi ottenuti sul campo dai militari Usa. Anche i repubblicani, che hanno appoggiato senza entusiasmo le scelte della Casa Bianca, preferiscono concentrarsi su altre questioni: sentono che l'elettorato è sollevato dal miglioramento della situazione in Iraq ma, comunque, vuole chiudere quella partita e pensare ad altro. Perfino John McCain, l'unico che ha sostenuto a gran voce la decisione di Bush di rafforzare l'impegno militare a Bagdad e che oggi sta ottenendo un modesto premio nei sondaggi per la sua scelta, negli ultimi comizi ha ignorato l'Iraq, preferendo dedicarsi all'Iran e alla crisi pachistana. Cattive notizie per chi, come Giuliani, si è accreditato come il presidente ideale per un Paese in guerra. (Corriere della Sera)

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