Nel 2007 abbiamo pagato il petrolio mediamente 73 dollari al barile, 6 in più di quanto ci toccò sborsare l’anno precedente. In entrambi i casi, ad inizio d’anno, si erano previste soglie di prezzo inferiori, poi smentite dai fatti. Così, anche di fronte all’exploit dei 100 dollari al barile di qualche giorno fa, non è difficile immaginare che anche gli 80 dollari indicati come prezzo medio più probabile per il 2008 rappresentino una previsione sbagliata per difetto. Anche perchè è la stessa Opec a prevedere una rincorsa dei prezzi per almeno tutto il primo trimestre, con una successiva stabilizzazione intorno ai 100 dollari. Così, qualche analista si è già spinto a supporre che ai 66 dollari del 2006 bisognerà aggiungerci un buon 50% in più per scoprire quanto ci costerà il greggio quest’anno. Vero è, però, che nel frattempo la moneta americana si è deprezzata del 20% sull’euro, per cui due quinti del rincaro nominale ci vengono risparmiati. Ma questo non toglie che benzina e gasolio (rispettivamente +53,7% e +87% in dieci anni) abbiano toccato prezzi record, anche grazie a quella sorta di “scala mobile” al contrario che è rappresentata dalle accise sui carburanti, e che consente al Fisco di incassare maggiormente quanto più sale il prezzo base. Con questo propellente, è probabile che la fiammata inflazionistica registrata a novembre – 2,4% contro il 2,1% del mese precedente, livello massimo mai toccato dal giugno 2004 – abbia perso i caratteri dell’occasionalità e ora con il dato di dicembre – l’indice è arrivato a +2,6% e poco importa che la media annua sia stata dell’1,8% – rischi di diventare strutturale. Intanto si è ridotta da 7 a 5 decimi punto la differenza a nostro vantaggio con l’inflazione europea (a dicembre è rimasta a 3,1%). E se la bolletta petrolifera ci costerà mezzo punto di pil in meno a fine 2008 (0,5% anziché 1%), il rialzo dei prezzi finirà con l’incidere sull’andamento già stagnante dei consumi, e quindi determinerà anch’esso una frenata ulteriore della crescita economica.
Tuttavia, guai a credere che il problema centrale dell’economia italiana sia l’inflazione, e che esistano sistemi di controllo dei prezzi efficaci e non distorsivi. Se ci sono famiglie che non arrivano alla fine del mese – e ce ne sono un numero crescente, come dimostra uno studio di Bankitalia in cui si dice che 8,89 milioni di persone, il 15,8% degli italiani, per due terzi collocate nel Mezzogiorno, ha un livello di spesa sotto la soglia di povertà – la colpa è del reddito insufficiente, ed è su quanto entra nel portafoglio, più che su quanto esce, che dobbiamo agire. Per farlo è giusto porre la questione di una crescita significativa di salari e stipendi – sempre Bankitalia ipotizza che un taglio delle tasse sulle buste paga per un punto di pil farebbe crescere di 0,4 punti la ricchezza e ridurre di mezzo punto l’inflazione – ma se non vogliamo che essa vada a ulteriore detrimento di una produttività già bassa (il pil per lavoratore è oggi inferiore a quello del 2000), dobbiamo dirci che il nodo vero è il ritorno ad uno sviluppo economico non inferiore al 3%. E siccome negli ultimi 11 anni siamo cresciuti dell’1,4% l’anno (2,2% Eurolandia, 3,2% gli Usa) e le previsioni per il biennio 2008-9 non vanno oltre l’1%, è chiaro da che parte occorra cominciare. (Terza Repubblica)
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