giovedì 10 settembre 2009

Il lamento della delegittimazione. Davide Giacalone

“Delegittimazione” è la parola magica, la chiave che apre e chiude i documenti politici dell’Associazione Nazionale Magistrati, che, a scanso d’equivoci, è un sindacato e non un’istituzione. Basta che si critichi questo o quell’operato della magistratura e subito scatta il riflesso condizionato: state delegittimando la giustizia. A ben vedere, però, non ce n’è gran bisogno, giacché spesso provvede da sé sola.
Il quadro generale è sconfortante. La nostra è la peggiore giustizia del mondo civile, come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo continua a ricordarci. Due giorni fa è morto, in carcere a Pavia, un tunisino che faceva lo sciopero della sete e della fame: Sami Mbark Ben Gargi. Sosteneva d’essere innocente, ma non è rilevante. Quel che conta è che se ne stava in carcere da tre anni, senza una condanna definitiva, che avrebbe giustificato la pena. Sami era in carcere da presunto innocente, condannato in due gradi di giudizio, ma ancora “ricorrente”. Mentre Sami moriva i giudici, che avrebbero dovuto esaminare il ricorso, erano (e sono) in vacanza. Ne fanno quanto gli scolaretti, senza neanche i compiti estivi. Ma, evidentemente, questo non lo trovano delegittimante.
Anche nello specifico, però, c’è da riflettere. Berlusconi ha lamentato la possibilità che dalle procure antimafia sia in arrivo qualche polpetta avvelenata, l’Anm ha subito replicato stracciandosi le vesti per gli eroici procuratori che combattono contro il crimine organizzato, assetati di verità processuale. Anche noi sentiamo la stessa arsura, e molti conti non ci tornano.
Per la strage di via D’Amelio, dove fu ucciso Paolo Borsellino, la procura sostenne una tesi, avallata dai verdetti. Abbiamo una verità processuale, solo che è falsa, hanno sbagliato tutto. Un pentito, Gaspare Spatuzza, ha raccontato come sono andate le cose, non solo smentendo il pentito precedente, Vincenzo Scarantino, che era stato preso come un oracolo, ma dimostrando che c’è voluta tanta buona volontà per credergli. Gli eroici procuratori, nel migliore dei casi, in compagnia dei tribunali, s’erano fatti menare per il naso. La cosa singolare è che una volta scoperta la nuova verità, si pretende di appiccicarle addosso i medesimi teoremi che, grazie alla vecchia, s’erano fatti circolare.E non basta. Si continua ad indagare sulla presunta “trattativa” fra la mafia e lo Stato, chiamando in causa Berlusconi che, all’epoca dei fatti, non aveva titolo a trattare per conto di nessuno Stato. Intanto si cerca di dimenticare che l’uomo dei contatti strani c’è già, è Luciano Violante. E’ lui che, dopo una vita passata a discettare su contiguità e frequentazioni, alla sola notizia che potessero arrivare carte di Vito Ciancimino è corso in procura, con tre lustri di ritardo, a dire: adesso che ricordo, mi chiese un incontro (o Violante lo chiese a lui). E fosse solo quello, perché gli mandò anche l’anteprima di un suo libro (sulla mafia, naturalmente). Ed a cosa portarono le stragi di mafia? Prima fu eletto Oscar Luigi Scalfaro alla Presidenza della Repubblica e poi …. E’ una storia ancora tutta da scrivere.
A noi rimane la gola secca, assetata di verità. Ci piacerebbe pensare ad una magistratura che la cerca, con professionalità, piuttosto che a procure nelle mani dei pentiti e pentiti nelle mani delle procure, salvo lanciare l’anatema della delegittimazione ogni volta che i fatti fanno a cazzotti con i teoremi.

4 commenti:

fuoco amico ha detto...

Voci insistenti sussurrano: «Il Cavaliere è convinto che dietro i discorsi di Fini ci sia Paolo Mieli» (ieri un quotidiano lo ha anche scritto). Ma finora è rimasta in ombra la parte ecclesiastica di questo “progetto”. Provo a svelarla. Che gli intellettuali della generazione sessantottina abbiano sempre aspirato a “dare la linea”, a etero-dirigere i leader politici e il Paese, magari grazie a una corazzata come il Corriere della sera, è risaputo. Ci provarono con Bettino Craxi e andò male perché li liquidò bruscamente come «intellettuali dei miei stivali». Con Berlusconi il tentativo era impossibile per la sua atavica diffidenza verso quei cenacoli. Con Fini tutto è diverso. La sua ansia di legittimazione e il vuoto culturale che ha alle spalle si presta ad essere riempito (e così legittimato) da queste teste pensanti.

Ecco il senso della campagna di Galli della Loggia e del Corriere sui festeggiamenti per l’Unità d’Italia e sulla mancanza di un vero spirito nazionale nelle classi dirigenti. Costituisce una prima tappezzeria ideologica su cui può essere proiettata l’entrata in scena di Fini come nuovo leader di un centrodestra liberalnazionale (tipo Destra storica), in sostituzione di un Berlusconi che La Repubblica (e ora anche il Corriere) tentano di logorare quotidianamente e infine di affondare.

La Destra storica

Una nuova “Destra storica” – questa di Galli e Fini – che ha, come la vecchia, un suo spirito ghibellino e Fini lo ha esibito negli ultimi quattro anni. Tanto è vero che l’altro strano editoriale recente di Galli sul Corriere era dedicato – guarda caso – all’abolizione del Concordato, idea bislacca per cui Galli si è inventato pure un’improbabile legittimazione cattolica, ma che di fatto entusiasma solo i radicali, sempre blanditi da Mieli e oggi tifosi dell’ex leader missino.

Il “trait d’union” intellettuale fra Galli della Loggia e il presidente della Camera pare sia Alessandro Campi, docente all’università di Perugia, collega e amico di Galli nonché “ghost writer” di Fini, forse ideatore pure della sparata che proclamava l’Italia “erede del politeismo” (quello di Nerone).

Ma c’è un altro vuoto che questo circolo intellettuale pensa di riempire per inglobare la Chiesa in quel progetto politico “gallofiniano”: è appunto il vuoto creatosi nella leadership cattolica dopo il pensionamento di Ruini e la defenestrazione di Boffo.

In realtà l’area Mieli-Galli ha avuto un buon rapporto con Ruini, ma per quei temi che riguardano l’identità giudaico-cristiana dell’Occidente, per arginare - nel clima dell’11 settembre - quel cattoprogressismo terzomondista che strizza l’occhio all’Islam e detesta Stati Uniti e Israele. Invece il dissenso sui “valori non negoziabili” di Ruini è stato profondo, tanto che il Corriere di Mieli (schieratissimo) fu il vero sconfitto del referendum sulla legge 40 che nel 2005 vide vincitore Ruini.

fuoco amico ha detto...

Un nuovo orizzonte per questi circoli intellettuali e per Fini si apre con la fine dell’epoca Ruini. C’è un antefatto. Quando Bertone è diventato segretario di Stato vaticano ha reclamato il diritto di gestire in prima persona, dal Vaticano, il rapporto della Chiesa con la politica italiana, fino ad allora tenuto in esclusiva dal cardinale Ruini. Si è creato un certo conflitto con la Cei e alla fine ha vinto Bertone grazie al pensionamento di Ruini.

Ma il colpo di grazia è venuto con il “pensionamento” traumatico di Dino Boffo dalla direzione di Avvenire, perché Boffo era molto di più del direttore del giornale della Cei. Era lo stratega del ruinismo che puntava a fare dell’Italia il modello del cattolicesimo europeo.

Allora diventa significativo che ad assestare il colpo del ko a Boffo sia stato il direttore dell’Osservatore romano, Gian Maria Vian, parlando quasi come portavoce ufficioso di Bertone, proprio nelle ore successive all’attacco del Giornale. Con una intervista al Corriere della sera - pur esprimendo solidarietà umana per l’attacco di Feltri - ha sparato a zero sulla linea di Avvenire.

L’antagonismo fra le due linee si era evidenziata anche sui “valori non negoziabili” durante il caso di Eluana, quando le posizioni della Cei e di Bertone apparvero assai distanti, quanto quelle dell’Osservatore e dell’Avvenire.

In questi giorni altri segnali emergono con chiarezza. Ieri, per esempio, sulla pagina culturale di Avvenire, si poteva leggere che ad un convegno a Milano con Ruini e Galli della Loggia, è intervenuto Vian il quale, commentando le scelte di Ruini dopo la fine della Dc, ha testualmente definito «una sorta di araba fenice il Progetto Culturale di cui ora si incomincia a intravedere qualcosa».

Attacco frontale

Qualunque giudizio si dia sul “Progetto Culturale” che ha connotato l’epoca Ruini alla presidenza della Cei, non si era mai visto un direttore dell’Osservatore romano attaccare così, esplicitamente e frontalmente, colui che è stato finora il leader della Chiesa italiana.

È solo un episodio? No. Per capire l’“aria nuova” che tira, anche sui “valori non negoziabili”, basta vedere l’Osservatore del 9 settembre dove è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia intitolato “Qual è la vita che difendiamo?”, il cui svolgimento è confuso, ma chiaro nella conclusione, obiettivamente assai critica verso la “cultura della vita” dell’epoca Wojtyla-Ruini.

Citando infatti Ivan Illich, la Scaraffia scrive: «Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich: i cattolici devono essere capaci di trasmettere l’amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili».

Wojtyla è sistemato. Qualcuno potrebbe credere che – per quanto sia singolare leggere questi argomenti sull’Osservatore – si tratti di idee di una singola editorialista. Sennonché la Scaraffia – che, guarda caso, è pure la moglie di Galli Della Loggia – nell’epoca Vian (talvolta con gaffe e scivoloni) esprime un po’ la linea del giornale, come lo stesso Vian ha fatto capire nell’intervista al Corriere.

fuoco amico ha detto...

Di certo questo “nuovo approccio” è molto più compatibile con le posizioni laiciste di Fini rispetto a quello di Ruini. Infatti, emblematicamente, nel pieno del “caso Boffo”, Fini ha tentato una sortita in campo cattolico - a lui precluso da tempo - e al convegno delle Acli ha parlato, come un politico di centrosinistra, sul tema dei diritti politici degli immigrati. Proprio nei giorni in cui Berlusconi era in crisi con la Chiesa, con l’ambizione di soppiantarlo.

Disegno ambizioso

A questo punto non stupirà che sempre sull’Osservatore, il 13 agosto scorso, sia apparso un articolo di un intellettuale, di “area Galli”, che fa un monumento a Galli della Loggia stesso per la sua campagna sulle “celebrazioni per l’unità d’Italia” e suona una fanfara risorgimentale un po’ buffa sull’Osservatore, soprattutto laddove dice che «i fattori coesivi della nostra identità» sono «la lingua e il patrimonio letterario».

Dimenticando la religione che poteva menzionare anche solo citando un risorgimentale cattolico come Manzoni, il quale cantava l’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare/ di memorie, di sangue e di cor» (l’altare – almeno sull’Osservatore – vogliamo mettercelo?).

Tutto questo somiglia alla predisposizione di un retroterra ideologico di un nuovo centrodestra post-berlusconiano (che magari torna a inglobare l’Udc): potrebbe andare da Montezemolo alla Scaraffia, con Casini (Fiat Lucetta invece che Fiat lux). E magari Fini al Quirinale. Un disegno ambizioso. Probabilmente velleitario. Che però spiega bene il senso delle parole di Mieli, l’altroieri, al convegno di Milano, dove ha “consigliato” alla Chiesa di «dedicarsi ai laici in dialogo perché il soccombere di questa posizione provoca danni a tutti».

Dunque se affonda “Papi”, avremo “Mieli Papa”?

Anonimo ha detto...

che complottoni...

prima i comunisti, poi Di pIetro, poi i poteri forti con Fiat e Montezemolo
ora Mieli

parole parole parole