Berlusconi dice che con il voto di domenica gli elettori hanno premiato il suo governo. Non è esatto, visto che il partito del premier ha perso voti sia in assoluto sia in percentuale, e li ha persi tanto rispetto alle Europee quanto rispetto alle Politiche. E non è nemmeno vero che le perdite del Pdl siano state compensate dal successo della Lega: il vantaggio del centro-destra rispetto al centro-sinistra si è circa dimezzato rispetto al 2008-2009.
Ed è passato dal 5-6% al 2-3%. Ha dunque ragione Bersani, che parla di «inversione di tendenza» e dice che il Pd ha recuperato, sia pure di poco, rispetto al deludente risultato delle Europee?
Direi proprio di no. Intanto perché un piccolo indebolimento della maggioranza di governo in un’elezione intermedia è fisiologico, e di norma segnala solo che gli elettori sono usciti dalla luna di miele e richiamano il governo a onorare gli impegni. E poi perché i conti del Pd, se fatti correttamente, non rivelano un rafforzamento rispetto alle Europee, ma un ulteriore indebolimento. Nel 2009 il Pd aveva ottenuto il 26,6% da solo, e il 29,1% conteggiando i radicali, che allora si erano presentati in tutte le regioni. Nelle elezioni regionali appena avvenute ha ottenuto il 26,1%, che diventa il 26,7% aggiungendo i radicali (presenti in poche regioni), e circa il 28% assegnando al Pd i voti delle liste collegate a un candidato presidente del Pd stesso. Dunque se si tiene conto di tutto (assenza dei radicali e liste del presidente), la forza di attrazione del Pd non è aumentata, ma diminuita, sia pure di poco: il Pd è al minimo storico, altroché inversione di tendenza.
Tutto fermo, dunque? Non proprio. Il risultato elettorale contiene almeno due novità notevoli.
La prima è il trionfo del partito dello scontento e la conseguente (momentanea?) disfatta del bipartitismo. Ci sono sei strumenti elettorali per esprimere la propria insoddisfazione: non andare a votare, votare scheda bianca, votare scheda nulla, votare Bossi, votare Di Pietro, votare Beppe Grillo. Ebbene, li abbiamo usati tutti massicciamente: l’astensione è al massimo storico (36,5%), il voto alla Lega anche (12,3% dei voti validi), il populismo di sinistra (Di Pietro + Grillo) non è mai stato così forte (8,7% dei voti validi). Specularmente, il voto ai due maggiori partiti, Pd e Pdl, supera a mala pena il 50% dei voti validi.
Ma, per capire veramente a che punto siamo arrivati, più che sui voti validi è utile ragionare sul corpo elettorale. Fatto 100 il numero di aventi diritto al voto, circa 40 non hanno scelto alcun partito o lista, 12 hanno votato Lega, Italia dei valori o lista Grillo, 29 hanno votato uno dei due partitoni (Pd o Pdl), e i restanti 19 si sono suddivisi fra le decine di partiti e liste restanti. Tenuto conto che circa il 10-15% dell’astensione è dovuta a cause di forza maggiore, possiamo dire che il partito del «non voto per scelta», costituito da astensionisti volontari, schede bianche e nulle, è compreso fra il 25% e il 30% del corpo elettorale, ossia pesa più o meno come Pdl e Pd messi insieme, la cui somma non raggiunge il 30%. Non era mai successo prima e dovrebbe far riflettere: il principale partito di governo è votato da circa 1 italiano su 7, mentre ben 3 italiani su 7 semplicemente non partecipano al gioco.
La seconda novità è la distribuzione geografica del successo della Lega. La Lega sfonda in quattro regioni: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte. Cresce un po’ di meno in Toscana e Marche. Cresce ancora meno in Umbria e Liguria. Non si presenta dal Lazio in giù. Ebbene, è sorprendente constatare che il tasso di penetrazione della Lega è strettamente correlato al ruolo economico dei territori. Le regioni a maggiore penetrazione leghista sono le regioni più produttive del Paese, quelle che «tirano la carretta» e sono quindi in forte credito con buona parte delle altre (circa 55 miliardi di euro all’anno). Le regioni a media penetrazione della Lega - Toscana e Marche - sono anch’esse in credito ma in misura meno drammatica. Le regioni a bassa o nulla penetrazione della Lega (Liguria, Umbria, Lazio e Mezzogiorno) sono in debito con tutte le altre (i calcoli sui crediti e debiti delle regioni sono esposti nel mio libro Il sacco del Nord).
Anche questo risultato fa riflettere. I dirigenti della Lega sognavano il «quadrilatero del Nord», ovvero la conquista al centro-destra delle tre grandi regioni subalpine (Piemonte, Lombardia, Veneto) più la Liguria. Ma a giudicare dai dati economici di fondo dovrebbero forse correggere il loro sogno: la Liguria fa parte delle regioni debitrici, mentre l’Emilia Romagna è la seconda regione creditrice dopo la Lombardia. Se finora non è stata ancora conquistata completamente dalla Lega è soprattutto per due motivi: la forza inerziale della tradizione comunista, la concorrenza esercitata dalla sinistra populista (Di Pietro + Grillo), che per ora è riuscita a intercettare una parte consistente delle inquietudini degli elettori, e forse non a caso ha ottenuto proprio in Emilia Romagna il successo più strepitoso, triplicando i voti rispetto a quelli del 2008.
Così la mappa politica dell’Italia che si comincia a intravedere dopo le Regionali ha non pochi tratti inediti. A Nord una fascia di quattro grandi regioni, le più produttive del Paese, affacciate sul fiume Po: il Piemonte è già entrato nel club, l’Emilia Romagna potrebbe entrarci al prossimo giro. Al centro la classica zona rossa, che già ora si stende fino alla Liguria (rimasta al centro-sinistra), e che domani potrebbe perdere l’Emilia Romagna: un’area sostanzialmente in pareggio, che riceve più o meno quanto dà. A Sud della zona rossa il resto del Paese - dal Lazio alla Sicilia - dove la Lega non può attecchire perché tutte le sue regioni producono di meno di quello che consumano. (la Stampa)
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1 commento:
Rimane da capire come verrà effettuata la riforma federalista. Lo stesso Ricolfi, ne "il sacco del Nord", avverte che se rimane così come prevista dalle bozze Calderoli, rischia solo di peggiorare la situazione.
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