Si sono divisi sui processi politici e scontrati su come fare le indagini. Si sono contesi l'eredità di Falcone. Inchiesta dopo inchiesta, si sono combattuti su tutto. Su Andreotti. Sui pentiti. Sulla caccia a Provenzano. Sulle "talpe" infilate nelle loro stanze. Prima hanno scatenato violentissime guerre in nome dell'antimafia e poi la loro antimafia l'hanno divorata. Quasi venticinque anni dopo è finita per sempre la storia del pool di Palermo. L'hanno sepolto antichi rancori, l'hanno sbranato tribù giudiziarie in perenne sfida. E ormai, di quell'idea e di quella struttura investigativa nata in un piccolo bunker del Palazzo di Giustizia mentre i mafiosi spadroneggiavano per la città, sono rimaste solo macerie. Resti di pool sui quali camminano giudici che si azzannano, che si fanno a pezzi fra loro. Sono giudici cannibali quelli di Palermo. Rappresentato dagli stessi abitanti del Palazzo di Giustizia come uno dei tanti conflitti originati da due "scuole di pensiero", il caso Palermo in realtà questa volta è il segno di un'avventura al suo epilogo: la conclusione di una stagione italiana nella lotta a Cosa Nostra.
Quelle di Palermo non sono soltanto dispute - come era accaduto anche più volte in passato - di natura tecnico giuridica o divergenze sul vaglio delle contiguità fra mafia e politica. È tutto più evidente e doloroso: è lo spegnimento, l'estinzione di un'esperienza che ha marcato un quarto di secolo.
È implosa la procura della Repubblica di Palermo. Dietro le polemiche, le risse, le comunicazioni a mezzo stampa per precisare pubblicamente "la linea dell'ufficio", c'è una devastazione mai conosciuta prima. Neanche ai tempi dei veleni e dei magistrati eccellenti sospettati di collusione. Gli effetti di questo disastro sono già visibili. Investigazioni rallentate. Processi pasticciati. Deleghe d'indagine sospese. Sostituti che nascondono carte ad altri sostituti, che non si salutano più, che dichiarano apertamente "il proprio odio" nei confronti di altri magistrati. Colleghi della porta accanto, blindati come loro, prigionieri delle stesse scorte e delle stesse paure.
Un pool pieno di nemici. Una parte accusa l'altra di "massimalismo" nelle investigazioni di mafia, il riferimento è alla gestione Caselli, ai suoi processi politici - quasi tutti persi - e allo schema operativo che si sta riproponendo ora con il nuovo procuratore capo Francesco Messineo. Sarà un caso, ma nei corridoi della procura di Palermo è ricominciato a circolare il nome di Silvio Berlusconi. L'altra parte accusa i fedelissimi di Pietro Grasso di avere creato un "centro di potere" nella direzione distrettuale, con indagini affidate a pochi. Di avere impedito la "circolarità" delle informazioni, mantenuto un "basso profilo" investigativo, concentrato energie quasi soltanto sul versante militare di Cosa Nostra. Trascurando la mafia economica e politica.
L'ultimo atto di questa lotta è la vicenda Cuffaro. Su come portare alla sbarra il governatore della Sicilia per le sue frequentazioni mafiose, sui reati da contestargli. Il caso è emblematico. Ma quali discordie e quali diverse "scuole di pensiero", i fatti che si sono susseguiti intorno all'inchiesta sull'imputato Totò Cuffaro rasentano la perversione giuridica. Oggi, a Palermo, contro il governatore ci sono due procedimenti fotocopia. Tutti e due con le stesse fonti di prova. Uno aperto il 26 giugno 2003, l'altro il 21 maggio del 2007. Il primo è approdato in dibattimento e - in sede di requisitoria - per lui sono stati chiesti 8 anni di reclusione per rivelazione di segreti e favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Il secondo ha prodotto l'iscrizione di Cuffaro nel registro degli indagati per gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, concorso in associazione mafiosa. Una procura lo sta già processando per un reato, un'altra procura lo vorrebbe processare per un altro reato. L'inchiesta però è sempre quella, non sono emersi altri indizi, non ci sono altre acquisizioni (un paio di deleghe e nulla più), non c'è un altro collaboratore di giustizia o un'altra intercettazione ad arricchire il quadro probatorio.
L'affaire Cuffaro è stato in sostanza soltanto il pretesto per l'ennesimo duello, il più rabbioso. Il governatore della Sicilia di fatto passerà alle cronache come l'imputato che ha dato il colpo finale alla credibilità dei procuratori di Palermo. Se ci sarà una data per ricordare la fine ufficiale del pool antimafia quella è proprio oggi: l'ottobre del 2007.
Più che una resa dei conti sta andando in scena una resa collettiva. Fra quel gruppo che faceva riferimento al procuratore Gian Carlo Caselli (i suoi fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Nico Gozzo, Gaetano Paci) e quegli altri che sono vicini al suo successore Pietro Grasso (Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino). Gli uni e gli altri sono consapevoli che, d'ora in avanti, alla procura della Repubblica di Palermo niente sarà più come prima. "Non c'è speranza", dicono tutti.
La ferita è profonda. Condiziona le strategie generali e l'attività quotidiana. Per esempio tutti aspettano con terrore il prossimo 12 dicembre la requisitoria al processo contro l'ex maresciallo dei carabinieri Antonio Borzacchelli, poi diventato deputato della Regione e arrestato per corruzione. L'atto di accusa è affidato a due sostituti che non si rivolgono più la parola. Ma è quell'ordinaria amministrazione che "ordinaria" non è mai stata a Palermo, che è influenzata e limitata dalle spaccature. Quando c'è un omicidio al confine fra una borgata e l'altra, il funzionario di polizia o l'ufficiale dei carabinieri che fa il sopralluogo entra in agitazione per capire chi è il referente in procura, l'aggiunto delegato a coordinare le attività investigative sui "mandamenti" mafiosi. Ce ne sono 7 di "aggiunti", tutti hanno il loro territorio, tutti vogliono in esclusiva la notizia criminis.
E subito, prima degli altri. "La stessa informazione sono costretto a girarla in una mattinata anche a cinque magistrati diversi", confessa un ufficiale di polizia giudiziaria che è da molti anni in Sicilia. La distribuzione di incarichi con la guida del procuratore Messineo si è rivelato uno "spezzatino antimafia" per accontentare tutti. Ne è derivato un disordine organizzativo e investigativo. Con un'aggravante: hanno isolato, messi da parte con la scusa della loro imminente uscita dalla direzione distrettuale per "scadenza", quei sostituti legati a Pietro Grasso come Prestipino e De Lucia che erano i titolari di quasi tutte le inchieste più importanti. Due magistrati con una capacità investigativa - di qualità e, particolare non trascurabile, di quantità - decisamente fuori dal comune.
La vera svolta, dichiarata e sbandierata, rispetto alla procura di Grasso è quella di "alzare il tiro". Un annuncio per rinnegare l'azione palermitana dell'attuale Superprocuratore nazionale, liquidata da alcuni addirittura come la fase più "oscura" della lotta alla mafia. Dall'altra sponda già tremano per la riproposta di vecchi "teoremi". E poi c'è un passato siciliano troppo pesante per poterlo dimenticare. I risentimenti covano sempre. Nel mirino dei sostituti che hanno riconquistato la procura con Messineo c'è - primo fra tutti - Giuseppe Pignatone, al quale si rinfaccia la sua ostilità Giovanni Falcone. È il magistrato che ha coordinato l'indagine sulla cattura di Provenzano e contemporaneamente l'indagine su Cuffaro. In tanti però lo ricordano sempre per quel suo peccato originale, lo considerano un "prudente". Sull'altro fronte si scandalizzano per inchieste ferme da più di un anno, per arresti che risalgono ancora ai "pizzini" di Provenzano o agli sviluppi di una retata del giugno del 2006. Un'apatia investigativa che avrebbe concesso già fin troppo tempo alle "famiglie" per riorganizzarsi.
Nell'antimafia di Palermo è muro contro muro. Un paio di giorni fa Messineo ha steso la bozza di un documento per provare a "pacificare" l'ufficio, l'ha fatta girare per sentire gli umori dei suoi sostituti. Quella bozza, qualcuno, l'ha già definita "indecente". Come era prevedibile, un altro tentativo di riconciliazione è finito ancora prima di diventare in qualche modo ufficiale.
È in questa tormentata procura che fra il gennaio e il giugno del 2008 se ne andranno per legge tutti e 7 gli "aggiunti". Si fanno già i nomi dei nuovi. Uno è quello di Girolamo Alberto Di Pisa, il magistrato accusato di essere il Corvo di Palermo. Fu assolto, naturalmente. Tornerà lui e torneranno altri in procura. Come negli anni prima del pool. (la Repubblica)
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4 commenti:
La casta togata non paga mai
E adesso? La Cassazione ha definitivamente rimosso la spazzatura mediatico-giudiziaria che si era depositata negli interstizi del caso Sme e ha assolto con formula piena Silvio Berlusconi dall’accusa di corruzione in atti giudiziari. Questo verdetto distrugge il CASTELLO DI CARTE – migliaia di pagine - che era servito ad alimentare, con un mirato stillicidio di indiscrezioni e proclami accusatori, la leggenda del Cavaliere Nero, il leader del centrodestra appunto, come dell’inquinatore principe della vita italiana. Ebbene, la Cassazione stabilisce che si trattava di pura bufala doc, di menzogna programmata al tempo del giustizialismo trionfante. Per l’uso strumentale che della vicenda ha fatto la sinistra, adesso, chi paga? Nessuno. E nessun giornalista d’assalto si soffermerà sull’affaruccio con cui, a puro prezzo di favore, Romano Prodi aveva svenduto la Sme.
IL PUNTO
Sme, ecco di chi era il banco degli imputati CI SONO voluti molti, troppi anni, per dire che Silvio Berlusconi è innocente e non ha corrotto i giudici romani per addomesticare una sentenza a lui favorevole. Anni in cui la vicenda Sme è parsa come una spada di Damocle sulla testa non solo dell'ex premier e capo dell'opposizione, ma anche su quei milioni di italiani che hanno indicato in Berlusconi il leader della Cdl.
Interessante, quindi il corruttore è l'avvocato.
Qualcuno ci crede?
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