Infatti, se sei giovane e co.co.co e sei un pochino svelto, hai un avvenire assicurato. Puoi mettere in calendario parecchie presenze in tv dove potrai raccontare le tue disavventure. E se sai scrivere (non importa una confidenza stretta con la grammatica, anzi è meglio il contrario) troverai certamente degli editori che ti faranno scrivere un libro, in cui racconti come sei stato perseguitato dalla legge Biagi.
Nessuno si prenderà il disturbo di controllare date e circostanze (è capitato persino che qualcuno abbia evocato i guasti della legge n.30 del 2003 per eventi a lui capitati nel 1995). Ormai contano soltanto i luoghi comuni; e guai a metterli in discussione, a provare di confutare tesi precostituite. La verità accettata è solo quella ufficiale, anche se non è sorretta da riferimenti adeguati e convincenti. Chi non si adegua, diventa una voce fuori dal coro. E perciò un "uomo da bruciare", un nemico.
Mentre il nostro precario, corteggiato e compianto, ostenta le piaghe della sua condizione e recita la litania che abbiamo sentito o letto centinaia di volte: che non ha sicurezze per il futuro, che non è in grado di formare un nucleo familiare, di acquistare una casa e di vivere una vita dignitosa, se non grazie al contributo della famiglia di origine con la quale continua ad abitare. E che gli assicura l’automobile, un paio di cellulari, le vacanze dall’altra parte del mondo, capi di abbigliamento rigorosamente "firmati": il minimo indispensabile, dunque.
E giù a maledire il lavoro flessibile, il part time, le varie tipologie di rapporti "cattivi", responsabili della "caduta dell’angelo" dal Paradiso dell’agognata stabilità. Mentre il vate Luciano Gallino denuncia le violazioni di una Convenzione di Filadelfia nota solo a lui.
Dalli al call center!
Per trovare qualcuno che sappia recitare magistralmente il ruolo del precario (ricordate la battuta di uno dei primi film di Nanni Moretti: “E’ un giovane molto bravo a far la parte del giovane”?) basta andare in uno dei tanti call center. Questi posti di lavoro sono considerati alla stregua delle galere veneziane o dei campi di cotone del nuovo secolo. Di essi si parla come se fossero una tappa obbligata dell’occupazione giovanile se non addirittura la sola opportunità lavorativa per i giovani italiani, dove, dopo pochi anni, scatta la trappola della precarietà. Ma quanti sono le persone occupate nei call center? Il settore è in forte espansione perché le sue modalità operative rispondono ad esigenze di riorganizzazione del front office degli enti pubblici, delle aziende di servizi e di tante altre realtà. Si tratta di misure di outsourcing che vanno incontro alle necessità degli utenti, stanchi di colloquiare inutilmente coi vecchi centralini della "incomunicabilità accertata", dove – quando andava bene – si sentiva rispondere col classico sgarbato “Dica ?….”.
E’ un processo in corso in tutto il mondo. Tanto che si parla – con uno stupore farisaico – del fiorire dei call center delle aziende Usa e del Regno Unito in India, grazie alla confidenza degli operatori con la lingua inglese. Si stima che in Italia, le persone occupate nei call center siano 200mila. Mentre alcune aziende gestiscono in proprio queste funzioni, molte altre, soprattutto se pubbliche, devono ricorrere a gare regolari. Non è semplice, allora, per le ditte specializzate caricarsi di organici fissi, quando il loro giro d’affari potrebbe ridursi da un momento all’altro, in un contesto di competizione effettiva, fondata sul criterio del minor costo. Ecco perché la politica di stabilizzazione del lavoro nei call center, se fosse portata avanti dal Governo italiano con eccessiva disinvoltura, finirebbe per produrre una massiccia delocalizzazione di quest’attività. Se i call center italiani non li hanno ancora portati in Romania è perché la nostra lingua non lo parlano in modo adeguato per sostenere un minimo di conversazione con gli utenti.
Chi sono i dipendenti dei call center ? Il comparto è poco conosciuto e scarsamente sindacalizzato. Allo stato dell’arte si utilizzano inchieste molto particolari, quasi sempre viziate da pregiudizi ideologici, magari compiute all’interno delle più grandi imprese erogatrici dei servizi. Basta vedere la scarsa rappresentatività delle ricerche effettuate.
Un gruppo operativo del Prc è stato protagonista di una di queste indagini. Sono stati intervistati, ad esempio, 302 occupati, 239 donne e 63 uomini del call center Atesia di Roma (del gruppo Cos). Dalle risposte emerge – si afferma - che è un falso mito quello che vuole gli operatori di call center quasi tutti studenti universitari che cercano di pagarsi le piccole spese o gli studi fuori casa. Infatti, solo il 16,6% degli intervistati è impegnato in studi universitari mentre il 62% di loro ha 30 e più anni, il 42,5% degli intervistati ha un'anzianità lavorativa di almeno 4 anni e il 47,5% di 2 o 3 anni. Per l'80,7% degli intervistati si tratta dell’unico lavoro svolto. Il 58% dei lavoratori intervistati, nonostante lavori più di 30 ore settimanali, dichiara – si aggiunge - di non riuscire ad essere indipendente economicamente: ciò a causa della retribuzione a cottimo, delle giornate di non lavoro forzato e dei periodi di ferie e malattia. Gli stessi intervistati ritengono, tuttavia, prioritari, rispetto allo stesso tema della retribuzione, la sicurezza del posto di lavoro e il rispetto della dignità del lavoratore. Il 28,7% ritiene che non ci sia la possibilità di migliorare il rapporto di lavoro, solo il 13,5% ritiene utile lo sciopero, e ancora meno, l'8%, quelli che credono di poter migliorare attraverso la contrattazione individuale, il 5,2% dichiara che si dovrebbe fare pubblicità negativa all'azienda mentre ben il 28,1% ritiene necessaria l'unità di tutti i lavoratori dei call center (sia in outsourcing che no). Solo l'11% ha partecipato ad un'assemblea sindacale mentre quelli che si sono rivolti al sindacato, per qualsiasi motivo, sono il 42% degli intervistati.
La cosa più clamorosa - secondo gli attivisti neocomunisti che hanno condotto l’indagine - è che solo il 53% degli intervistati sa che Cgil-Cisl-Uil hanno siglato un accordo con il gruppo Cos, mentre addirittura il 65,8% non ne conosce i termini. Si tratta di un accordo che trasforma i vecchi contratti a progetto in parte in contratti di apprendistato, in parte in contratti a termine o comunque a part-time e con retribuzioni che non superano i 450-500 euro al mese. Quindi il sindacato è presente nel settore, negozia come può le condizioni di lavoro. Solo che l’avvio della stabilizzazione (attraverso l’assunzione a tempo indeterminato) ha comportato l’applicazione di un nuovo regime contributivo più oneroso che si è scaricato in termini negativi sul reddito netto dell’operatore. Del resto, queste sono le regole vigenti in Italia: le persone dispongono soltanto di quei diritti che sono capaci di conquistare e difendere.
I luoghi comuni
Ma se anche il campione individuato dagli attivisti di Rifondazione fosse assolutamente rappresentativo di una realtà assai più ampia di qualche centinaio di intervistati, resterebbe comunque senza risposta una considerazione chiave: nessuno è obbligato a lavorare in un call center, dove la retribuzione non può essere elevata (vista la natura delle mansioni svolte) e la competizione (decisiva per restare sul mercato) è spietata e si basa necessariamente sul contenimento dei costi, a partire da quello preminente del lavoro. Mutatis mutandis, sembra di essere tornati indietro di quasi 40 anni, quando nelle linee di montaggio delle grandi fabbriche manifatturiere la figura tipica era quella del lavoratore di terzo livello altrimenti detto operaio-massa. La parcellizzazione delle mansioni apparteneva ad uno specifico modo di produrre (ora si tratta soltanto di un retaggio d’archeologia industriale), come adesso accade per l’organizzazione del front office della società dei servizi. Nel nostro Paese, purtroppo, non siamo mai in grado di anticipare i problemi e di trovare adeguate soluzioni in tempo. E’ evidente che si sono formate sacche di precariato difficili da svuotare e che il popolo dei call center s’iscrive in questa problematica. Ma non è più consentita una rappresentazione della realtà in cui l’eccezione, seppure grave e consistente, diventa la regola. Eppure, quando si ricorda che il tasso d’occupazione in Italia non è mai stato da lungo tempo così elevato e che quello della disoccupazione si è quasi dimezzato in pochi anni (un tasso inferiore al 6% denota certamente, in un Paese caratterizzato da profondi divari, che in molte aree siamo ben oltre il pieno impiego), si risponde che, in verità, è solo "cattiva occupazione".
Anche l’Istat ci mette del suo continuando a certificare – senza allegare un solo dato a conforto – che la disoccupazione diminuisce perché la gente è talmente sfiduciata da non cercare neppure più lavoro. E’ a questo punto che di solito comincia la mistica del precariato con la medesima litania fastidiosa ed insistente che abbiamo conosciuto, quando, nella passata legislatura, iniziò la campagna per l’impoverimento dei ceti medi, seguita a ruota da quella sulla "quarta settimana", quando le famiglie non avevano più soldi per comprare il latte ai loro bambini. Intanto, ad ogni week end le autostrade scoppiavano di traffico e, sotto i nostri occhi, aveva luogo la più massiccia operazione di compravendita immobiliare della storia recente.
E che dire dei pensionati ? Li vanno a cercare nelle bocciofile e si fanno raccontare, senza mettere in dubbio una sola parola, storie incredibili di vita vissuta che sembrano dei corsi di sopravvivenza, mentre basterebbe, almeno una volta, mandare una troupe televisiva sulla Eugenio C. in crociera nel Mar Egeo o nei Caraibi per filmare i pensionati veri.
Un’indagine dell’Ires-Cgil
Un contributo di chiarimento è persino venuto, in partibus infidelium, dall’Ires (il centro studi della Cgil), il quale ha dedicato un intero fascicolo (il n. 1 del 2007) della rivista Quaderni di Rassegna sindacale all’"Italia del lavoro", tirando le somme di un’inchiesta che ha fotografato "la realtà produttiva e i lavoratori dipendenti in alcune regioni" del Paese.
L’indagine ha coinvolto un campione di 6.015 dipendenti e lavoratori con contratti atipici (collaborazioni a progetto, occasionali, in somministrazione) ai quali è stata proposta la compilazione di un questionario strutturato, con una parziale integrazione di 1.200 interviste telefoniche. Il campione è stato organizzato per ripartizioni territoriali ed attività economica prevalente.
Dall’indagine – ritenuta dall’Ires "ampiamente rappresentativa del lavoro dipendente italiano allargato ai rapporti non standard e atipici" - rappresenta una realtà in cui è cresciuta l’occupazione femminile, dove è ancora rilevante il peso delle categorie operaie, mentre è in aumento il livello di scolarizzazione, soprattutto nella pubblica amministrazione. Benché tale situazione sia sempre più segmentata in termini contrattuali, l’Ires ammette che "una decisa maggioranza" del campione, pari al 74%, ha un "rapporto di lavoro standard". Interessante è notare la ripartizione dei lavoratori con "rapporto non standard": si tratta nel 12,1% dei casi di contratti a termine o stagionali; nel 5,2% di co.co.co., co.co.pro., partite Iva. Il 2% è costituito da lavoratori interinali e da contrattisti di somministrazione; circa l’1,8% è privo di contratto, mentre il restante 4,3% si suddivide tra apprendisti, cfl, lavoratori in inserimento, collaboratori occasionali, soci lavoratori di cooperative, lavoranti a domicilio.
La composizione del mercato del lavoro, che emerge dall’indagine Ires, presenta, dunque, caratteristiche assolutamente fisiologiche, se solo si tiene conto del fatto che il lavoro stagionale (e quindi il ricorso ai contratti a termine) è in larga misura un’attività peculiare dell’organizzazione del lavoro di specifici settori di attività (agricoltura, turismo, costruzioni, ecc.).
Le formule contrattuali, definite instabili dall’indagine, si concentrano "contestualmente ai livelli più elevati e più bassi delle categorie professionali": i rapporti di lavoro non standard, infatti, sono diffusi in misura del 60,1%
Il 67 per cento circa dei lavoratori in età compresa tra i 15 e i 24 anni e il 37,4% di quelli tra i 25 e i 34 anni hanno un lavoro non standard. Ma dai dati scaturisce, pure, un’altra verità: e cioè che la condizione di "precarietà" non dura in eterno, ma sussiste in un periodo iniziale della vita lavorativa, che, nella generalità dei casi, tende a concludersi con la stabilizzazione (il che – lo ha chiarito da tempo AlmaLaurea – non significa necessariamente assunzione a tempo indeterminato). Occorre considerare, altresì, che sono in diminuzione i lavoratori che accedono al mercato del lavoro nella prima classe di età, quando i percorsi formativi non sono ancora conclusi. Già nella fascia successiva (24-34 anni) il rapporto tra lavori standard e non standard si invertono completamente con evidente vantaggio dei primi (che raddoppiano, mente la percentuale dei secondi si dimezza). E non è una buona politica quella di insistere su di una sorta di "precarietà percepita" che induce i giovani ad autocompatirsi, insieme alle loro famiglie.
L’etica della responsabilità e il lavoro rifiutato
In sostanza, dobbiamo chiederci se non stiamo creando una generazione di irresponsabili, che trova più semplice prendersela col mondo piuttosto che interrogarsi sulle ragioni della propria ritardata o mancata affermazione nel lavoro e nella vita.
Certo, non è colpa loro se la scuola e l’Università non sono all’altezza dei loro compiti formativi, se non esistono strutture d’intermediazione tra domanda ed offerta di lavoro e di orientamento professionale. E non è loro responsabilità se sulle giovani generazioni è precipitata tutta la flessibilità di cui ha bisogno il sistema economico per non grippare.
Per cambiare le cose, però, occorre individuare lucidamente i nodi da sciogliere e gli interessi da sconfiggere. Nessuno si pone la domanda che rese celebre John F. Kennedy: cosa posso fare io per il mio Paese o almeno che cosa posso fare io per me stesso. In uno dei tanti libri disonesti che sfruttano il malessere di questi giovani, vi è uno scambio di lettere che fotografa con efficacia la situazione.
A quanti sbandierano una laurea o un diploma lamentando di guadagnare solo pochi euro all’ora nei call center, un altro giovane risponde dicendo che lui di euro ne guadagna 45 facendo l’idraulico (senza essere polacco).
Nessuno, tra le tante ricerche di cattiva sociologia, si dà cura di andare alla scoperta del (tanto) lavoro rifiutato. Infermieri, saldatori, falegnami e tante altre figure sempre più difficili da reperire e formare. Interi settori (edilizia, turismo, servizi alla persona, ecc.) vanno avanti, ormai, grazie al solo lavoro degli immigrati.
Nell’industria entrano soltanto i giovani che non ne possono fare a meno. Gran parte del lavoro manuale viene rifiutato dai nostri figli "precari immaginari", ancorché si tratti di una prospettiva di occupazione stabile. Sono certamente storture e contraddizioni che chiamano in causa molti limiti dell’azienda Italia. Ma esistono anche delle responsabilità che ognuno deve assumersi in proprio, senza autoassolversi continuamente.
Non basta più rivendicare una stabilità chimerica e pretendere che siano garantite in partenza condizioni di vita che non sono un diritto, ma una dolorosa e difficile conquista. E che forse non sono più sostenibili. In Italia, vi è la convinzione che la sciagurata spensieratezza degli anni Settanta fosse la normalità. Invece era soltanto la via crucis del declino. E’ bene prenderne atto, ora, nel momento in cui siamo entrati nel quarantesimo anniversario del ’68. (l'Occidentale)
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