È un duro atto d'accusa quello del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nei confronti dei pm ospiti troppo fissi nei talk show televisivi e dei loro capi ufficio che non "contengono" il loro presenzialismo: "I procuratori capo dovrebbero contenere le attitudini cinematografiche di alcuni sostituti e se non lo fanno vuol dire che non hanno l'attitudine a dirigere il loro ufficio", ha detto il ministro intervendo al seminario del Csm sull'organizzazione delle procure. "I vari presidenti della Repubblica, da Pertini in poi, hanno sempre richiamato l'obbligo della magistratura non solo a essere imparziale, ma anche a non apparire parziale". Alfano ha tuttavia sottolineato di non conoscere dal piccolo schermo "la maggior parte dei presenti", a "riprova che la maggior parte dei capi degli uffici requirenti svolge la sua attività nella riservatezza". Ma il ministro ha anche teso la mano ai magistrati, avanzando tre proposte: un tavolo di confronto sulle sedi "disagiate", un altro per valutare i bisogni di risorse e mezzi delle procure nell'ambito dei fondi aggiuntivi per la giustizia che potrebbero arrivare dai beni sequestrati alla mafia, e un terzo tavolo per dar modo a "chi lotta in trincea" di contribuire al "piano straordinario che il governo intende lanciare contro la mafia". Riguardo le riforme allo studio in materia di giustizia, Alfano ha assicurato che per il governo indipendenza e autonomia della magistratura sono "sacre" e che "nessuno vuole sottomettere il pm all'Esecutivo: "Lo riterremmo sbagliato". Si tratta di un'ipotesi che non c'è nel programma di governo e "non intendiamo procedere, neanche surrettiziamente, in questa direzione". Tuttavia, ha poi precisato, "è sacra anche la rivendicazione di autonomia del Parlamento".
Rivendicando di non aver mai avviato scontri istituzionali tra ministero e Csm, e facendo notare le "tracce di norme emendate proprio sulla base dei pareri" forniti da Palazzo dei Marescialli, il ministro ha però difeso il ruolo del legislatore: se "si legge che il Csm ha bocciato un provvedimento che sta ancora seguendo il suo iter alle Camere, il legislatore ha una qualche forma di reazione, perché tiene al fatto che fare la legge spetta a lui". Promettendo di "battersi per avere più risorse per il settore giustizia" e impegandosi a "studiare con il Csm il problema delle piante organiche", e a fornire "risposte concrete e rapide", il ministro ha parlato delle risorse aggiuntive che dovrebbero arrivare dai beni sequestrati alla criminalità organizzata. Grazie alle ultime norme antimafia sono stati sequestrati circa 1 miliardo di euro e beni immobili per circa 4-5 miliardi, mentre bisogna ringraziare anche i pm, ha riconosciuto Alfano, se negli ultimi 15 mesi, a legislazione invariata, sono stati risparmiati 70-80 milioni di euro rinegoziando i costi dei servizi di intercettazione.
A margine dell'incontro con i capi delle procure, il ministro è poi tornato sulla guerra di cifre che si è scatenata tra Ministero e Anm sul numero dei processi che cadrebbero in prescrizione per effetto della legge sul "processo breve": la "difformità di analisi" dei numeri è "plateale". Per questo, il ministro non crede che l'Anm "abbia potuto davvero dire queste cose in questi termini, cioè che si prescrivono su 3 milioni 300 mila procedimenti pendenti, circa la metà, ossia 1 milione 700 mila". Una stima che il ministro giudica "talmente iperbolica e infondata" che è sicuramente dovuta a un "cortocircuito di comunicazione". "I numeri né si inventano, né si esasperano, né si sottovalutano", ha commentato invece il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, ammettendo che le cifre sono in effetti "discordanti", ma ricordando che oggi la sesta commissione ascolterà presidenti e procuratori capo dei nove più importanti uffici giudiziari del Paese per avere un quadro più preciso, "anche se - ha avvertito - la statistica che verrà fuori sarà parziale". Appuntamento, dunque, alla conferenza stampa fissata per questo pomeriggio. (il Velino)
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Le bufale della Fiat
Perchè una fiat fatta in Sicilia ci coistaa di più.
Il caso dello stabilimento siciliano della Fiat a Termini Imerese dà il senso di come la politica talvolta perda la bussola. La cosa è grave e anche seria. Ci sono 1.400 dipendenti che lavorano bene. La Fiat ha intenzione di non destinarlo più all’auto. Alcuni ministri del governo si oppongono. In Sicilia non ci sono acciaierie, non ci sono aziende fornitrici, non ci sono collegamenti di buon livello: costruire una Lancia Y in Sicilia costa alla Fiat mille euro in più che nel resto d’Italia. Banalmente per questo motivo Sergio Marchionne ha in mente di mollare la produzione di automobili in Sicilia.
Il manager si fa due conti: e a meno che Babbo Natale non abbia intenzione di beneficiare Fiat di questo differenziale di mille euro, Termini Imerese è destinata a perdere la sua produzione di auto. Pierluigi Bonora spiega bene, all’interno, le molte ragioni dell’inefficienza di questo sito produttivo.
Ma il tema dal quale siamo partiti è la politica e la sua presunzione di governare le imprese. Il vizietto, sia chiaro, non riguarda solo l’attuale esecutivo. Ieri il sindaco di Napoli si è lamentato del trasferimento di venti dipendenti di Alitalia a Roma.
La Fiat ha goduto di generosi incentivi alla rottamazione. Alla fine il saldo per le casse pubbliche sarà positivo; così come buona parte della forte ripresa del Pil italiano nell’ultimo trimestre è dovuto proprio alla ripresa dell’industria automobilistica. Il governo, tra i tanti comparti industriali del nostro Paese, ha scelto di dare una mano alla Fiat. Ora, forse proprio in virtù di questa scelta di campo, non sopporta l’idea che un manager segua una logica non politica: le auto siciliane costano troppo e, dunque, si realizzino altrove. Un governo che faccia le scelte industriali al posto della Fiat, si candida a gestirne i suoi inevitabili buchi di bilancio per i prossimi secoli.
Ma al blocco sociale che ha contribuito all’elezione di questo esecutivo e che fino a oggi non ha beccato un euro di sconto fiscale, questa scenetta non piace. Ha digerito a mala pena gli incentivi riservati alla sola auto: nonostante alla fine siano stati a impatto zero sul deficit. E adesso deve accettare il principio che il governo abbia un’attenzione particolare verso i dipendenti made in Fiat. Ma come? In giro per l’Italia si chiudono botteghe artigiane, piccole imprese, studi professionali e anche medie imprese senza che nessuno del governo alzi un dito, e quando la Fiat si muove si scatena questo putiferio.
Si ha l’impressione che davvero in Italia ci sia una classe di invisibili: ai quali si può fare di tutto. È un invito, questo, al governo. Si occupi meno di Fiat: è sufficientemente grande da badare a se stessa. E si preoccupi piuttosto delle decine di Termini Imerese che ogni settimana si chiudono senza che nessuno se ne accorga in tutto il Paese.
di Nicola Porro.
Le bufale del "secolo d italia"
La destra «chic» di Fini difende gli stranieri con metodi da Ventennio
Dice Filippo Rossi che non sta bene indicare la nazionalità dell’autore di un reato. Che non sta bene scrivere sui giornali che a violentare ripetutamente una donna sono stati, mettiamo, tre albanesi. Che lo spacciatore di droga è un marocchino. Che a derubare della sua pensione una anziana signora è stato un romeno. Dice Filippo Rossi che quell’«albanese», quel «romeno», quel «marocchino», sono particolari «assolutamente irrilevanti». Così che, conclude Filippo Rossi, si impone con urgenza un «Codice etico specifico», una «Carta dell’Ordine» inteso come Ordine dei giornalisti, che precluda al cronista l’uso di connotazioni etniche nel riportare i fatti di cronaca nera.
Filippo Rossi è una testa d’uovo alla corte di Gianfranco Fini. Sono in molti a sostenere che sia addirittura il suo più ascoltato consigliere (e in tal caso si spiegherebbero molte cose). Responsabile della versione on line di FareFuturo, la fondazione «politico-culturale» che fa capo al presidente della Camera e che si propone di modernizzare la destra italiana, di farla «vincente» perseguendo, fra l’altro, «una visione dinamica dell’identità nazionale» (e con questo si capisce tutto), Filippo Rossi ama definirsi un Gianburrasca. Gli piacciono, insomma, le marachelle. Per il Gianburrasca modernizzare la destra (e farla «vincente») è un gioco da ragazzi. Da un lato essa non deve «rinchiudersi nell’antro di Polifemo ma prendere il largo insieme a Ulisse». E fin qui, fessaggine della metafora a parte, niente di che. Il bello viene adesso: Polifemo o non Polifemo, Ulisse o non Ulisse, quella che Filippo Rossi vagheggia è infatti una destra «trendy, alla moda». E bisogna ammettere che a una destra di ispirazione Dolce e Gabbana, be’, non c’era arrivato nessuno.
È comunque di sicuro «trendy», di sicuro «alla moda» (collezione autunno-inverno), battersi affinché sia garantito l’anonimato etnico di quanti si mettono contro la legge. Rosy Bindi non fa che ripeterlo. Ma decisamente poco «trendy» e assolutamente fuori moda il metodo indicato, cioè il fascistissimo controllo sulla stampa. È evidente che la lingua di Filippo Rossi e del suo ventriloquo Gianfranco Fini seguita a battere dove il dente del «male assoluto» duole. Dalla richiesta di una «Carta dell’Ordine» (Ordine, quello dei giornalisti, di maschia origine fascista), traspare infatti la nostalgia per il Minculpop, del quale certamente Filippo Rossi potrebbe essere il Galeazzo Ciano. Per passare da quel «Minimizzare il Natale», che resta una delle perle delle veline del Ventennio a «Minimizzare la criminalità degli extracomunitari o comunitari quando romeni».
Tocca dunque proprio a noi, che se c’è una cosa che ci fa girar le scatole è la ventosa retorica sulla stampa libera&indipendente, ricordare a Filippo Rossi che non è irrilevante e meno che mai assolutamente irrilevante, dar conto ai lettori, all’opinione pubblica, della nazionalità dell’autore del tal omicidio o stupro o rapina. Vuoi per la sempre pretesa completezza dell’informazione, che se non è completa puzza al naso delle coscienze critiche della nazione di collusione col nemico, vuoi per contribuire al processo di integrazione multiculturale, etnica e religiosa, per aderire a quella «visione dinamica dell’identità nazionale» che tanto sta a cuore ai Filippi Rossi di destra e di manca. Imponendo, come il Giamburrasca di FareFuturo pretende, il chador alle notizie al fine di rappresentare le turbe di gentili ospiti romeni, extracomunitari, zingari eccetera, immuni dal commettere atti delittuosi, tutti santi, insomma, significa travisare coscientemente la realtà, ciò che non giova al benedetto processo d’integrazione, che ha bisogno di fatti e non di favole. Certo che deve avere le idee un poco confuse, quel Filippo Rossi: li induce a raccontar balle e poi invoca per i giornalisti un codice etico. Va bene prendere il largo insieme a Ulisse, ma a condizione di restar sobri durante la navigazione. Sennò ogni secca è tua e te la saluto la destra «vincente».
di Paolo Granzotto.
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