Il 9 novembre 1989 è caduto il Muro di Berlino, una data simbolica della storia recente e numericamente speculare – 9/11 e 11/9 – al giorno più importante di questo scorcio di secolo, quando tre aerei di linea sono stati dirottati da diciannove terroristi islamisti per attaccare l’America. Il 9/11 del 1989 è finita la Guerra fredda, ma non la storia – al contrario di quanto aveva previsto lo studioso Francis Fukuyama. Tanto che l’11/9 del 2001, dopo dodici anni di autocompiacimento, è brutalmente cominciata la nuova era.In questi giorni il mondo occidentale festeggia con gioia e passione il ventennale della caduta del Muro e la fine della Guerra fredda, ma la prima, inaspettata, contrastata – e per questo ancora più visionaria – picconata alla barriera di divisione fisica e ideologica tra l’est e l’ovest è stata assestata due anni e mezzo prima. Era il 12 giugno 1987, il giorno in cui è stata pronunciata la frase simbolo della fine della Guerra fredda: “Mr. Gorbachev, tear down this wall”, signor Gorbachev tiri giù questo muro. Quel giorno il presidente americano Ronald Reagan era volato di prima mattina a Berlino ovest, partendo da Venezia, dove la sera prima si era concluso il vertice del G7. Poco dopo le due del pomeriggio, Reagan è salito sul palco montato davanti alla Porta di Brandeburgo, chiusa dal muro che divideva l’ovest dall’est. Subito dopo l’intervento del cancelliere tedesco Helmuth Kohl, Reagan ha preso la parola. Era il 1.279esimo discorso della sua presidenza, è diventato il più importante e decisivo.
Il grande comunicatore, così lo chiamavano i media americani, era al termine della sua presidenza, all’ultimo anno e mezzo del secondo mandato. A quel punto aveva già pronunciato due grandi discorsi che, assieme a quello davanti al muro, resteranno nella storia della Guerra fredda. Reagan, come oggi Barack Obama, credeva molto nella forza della parola e spesso diceva che, in fondo, il vero compito del presidente è parlare. Alle parole, però, faceva seguire i fatti. Con i discorsi pubblici fissava i paletti e con la più prosaica azione politica cercava di trovare soluzioni compatibili con i principi e i valori americani.
Nel 1982, Reagan aveva parlato a Westminster, nel primo discorso di un presidente americano di fronte al Parlamento inglese riunito in seduta plenaria. Scritto da Anthony Dolan, quel discorso è diventato il manifesto politico della superiorità del modello democratico e liberale rispetto al sistema comunista sovietico. Le parole di Westminster sono entrate nell’epica della Guerra fredda soprattutto per la frase, in realtà una citazione di Leon Trotzky, con cui Reagan spiegò che la marcia della libertà e della democrazia avrebbe portato il marxismo e il leninismo nella “pattumiera della storia”.
Qualche mese dopo, sempre nel 1982, Anthony Dolan scrisse l’altro testo decisivo per la definizione reaganiana dei termini della Guerra fredda. Rivolto alla platea dell’Associazione nazionale degli evangelici, a Orlando, in Florida, Reagan coniò l’espressione “evil empire”, impero del male, per descrivere il comunismo sovietico. Il discorso scatenò la reazione costernata degli editorialisti liberal e di gran parte del corpo diplomatico americano, tutti convinti che un linguaggio così provocatorio avrebbe innervosito Mosca. Erano gli anni in cui il vantaggio geopolitico e militare sovietico sembrava inattaccabile.
I presidenti americani sono ricordati e spesso anche idolatrati per una frase decisiva pronunciata nel corso della loro presidenza. La frase di Franklin Delano Roosevelt è “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, pronunciata nel pieno della crisi economica degli anni Trenta che ha causato la Grande depressione. Quella di John Fitzgerald Kennedy, “ask not”, è stata pronunciata il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, nel gennaio 1961: “Non chiederti che cosa può fare il paese per te, chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo paese”. Il povero Bill Clinton sarà ricordato per aver detto “non ho fatto sesso con quella donna”, anche se non era vero, mentre a seconda di come la storia giudicherà il suo operato George W. Bush potrebbe essere ricordato per il fallimentare “missione compiuta” sull’Iraq o per il visionario e idealistico obiettivo di “porre fine alla tirannide nel mondo” pronunciato il giorno dell’inaugurazione del secondo mandato.
La frase di Reagan è “Mr. Gorbachev, tiri giù questo muro”.
L’appassionante storia di questa frase, e di questo discorso, è raccontata da Romesh Ratnesar, vicedirettore di Time, in un libro pubblicato in America con il titolo “Tear down this wall – A city, a president and the speech that ended the Cold war”. Oggi sembra scontato che il presidente americano avesse pronunciato quelle parole, ma allora non era affatto così.
Il muro era solidissimo e nessuno, nemmeno i più falchi ideologi della superiorità occidentale sul modello comunista, pensava seriamente che potesse crollare né da un momento all’altro, né mai. Il New York Times e il Washington Post, il giorno dopo il discorso di Reagan a Berlino, non misero la notizia in prima pagina. Il settimanale Time scrisse che la performance di Reagan era stata buona, anche “se non sufficiente a cancellare l’impressione che stia perdendo l’iniziativa a vantaggio del rivale sovietico”. Henry Kissinger commentò che Mosca non avrebbe mai abbattuto il muro. Lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale di Reagan, Frank Carlucci, disse che la frase era buona, ma che non si sarebbe mai realizzata. L’unico che ogni tanto diceva che prima o poi il Muro sarebbe caduto era Reagan, ma era più una speranza dettata dal suo indomabile ottimismo, dal suo idealismo misto a ingenuità e arroganza da cowboy, che il prodotto di una strategia politica.
Il discorso era stato assegnato al vice speechwriter della Casa Bianca, Peter Robinson. Le indicazioni del presidente erano state vaghe: c’era da celebrare il 750esimo compleanno di Berlino e da evitare il confronto con il famoso intervento di Kennedy “Ich bin ein Berliner”. L’advance team della Casa Bianca è volato a Berlino per scegliere il luogo dell’evento. I tedeschi e il dipartimento di stato non volevano la Porta di Brandeburgo, perché avevano paura di provocare il regime dell’est e i sovietici. Erano i mesi in cui America e Unione Sovietica, grazie alle riforme annunciate da Mikhail Gorbachev e alla disponibilità di Reagan, avevano cominciato un percorso di intesa politica e di rapporti personali che prometteva molto bene. A Reykjavik, qualche mese prima, i due leader erano quasi arrivati a eliminare gli arsenali nucleari, ma l’accordo è saltato perché Reagan non era disposto ad abbandonare il piano di difesa spaziale.
Gli uomini di Reagan si imposero e la scelta della Porta di Brandeburgo è stata decisiva, non solo simbolica. Una cosa è stata dire Mr. Gorbachev butti giù “questo” muro, trovandoselo alle spalle e con cinquecento tedeschi orientali disposti a rischiare la carica della polizia per ascoltare a distanza le parole del presidente americano, un’altra sarebbe stata chiedere di abbattere “quel” muro a qualche chilometro di distanza.
La scrittura del discorso è stata un processo lungo e faticoso che ha coinvolto Consiglio di sicurezza nazionale, dipartimento di stato, Cia, Pentagono e staff della Casa Bianca, come accade sempre con gli interventi presidenziali che riguardano la sicurezza nazionale. La prima bozza di Robinson conteneva la richiesta a Gorbachev di abbattere il Muro, in quelle successive la frase era da pronunciare in tedesco. Ogni volta che il testo veniva sottoposto a una revisione c’era sempre qualcuno, in particolare al dipartimento di stato e al Consiglio di sicurezza nazionale, che chiedeva di cancellare la richiesta a Gorbachev. Era, a seconda di chi parlava, sbagliata, non presidenziale, pericolosa e arrogante. Uno dei più attivi era Colin Powell, allora viceconsigliere della sicurezza nazionale. A un certo punto è cominciato a circolare un discorso alternativo, scritto dall’ambasciatore americano a Berlino e privo di toni che avrebbero potuto compromettere i rapporti con Mosca. Robinson non cedeva e nelle innumerevoli revisioni successive lasciava sempre la frase, anche se in tedesco (è stato il suo boss, Anthony Dolan, a imporre la formulazione in inglese). Il tira e molla per fermare Reagan in nome della realpolitik è durato fino alla mattina del 12 giugno sull’aereo da Venezia a Berlino. Diplomatici, consiglieri per la sicurezza e staff hanno provato per l’ultima volta a convincere il presidente. Reagan si è fidato del suo istinto. Pochi giorni dopo i servizi americani hanno intercettato una comunicazione da Mosca a Berlino: il Cremlino chiedeva al governo tedesco orientale di allentare le misure di sicurezza sul Muro. (il Foglio)
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