Era tutto il giorno che il Muro veniva giù, sbrecciato dalle mani e dai picconi. Poi si era fatta sera, a Berlino ma anche a Botteghe Oscure, il palazzo dove abitava il Pci, il più forte partito comunista d’Occidente. Al Bottegone le luci sono ancora tutte accese. Il segretario Achille Occhetto è a Bruxelles, ma i giovani rampolli che forse un giorno si faranno - D’Alema, Veltroni, Fassino - da ore sono davanti al televisore. Ad un certo punto Claudio Petruccioli si alza, si avvia lungo il corridoio, va a cercare lo sguardo e il pensiero di Alessandro Natta.
Nella stanza dell’ex segretario «la luce non è accesa, domina la penombra», racconterà Petruccioli nel suo libro Rendi conto. «Che facciamo?». E Natta: «Ma caro Petruccioli, cosa volete fare!». Petruccioli: «Ma come cosa vogliamo fare? Telefonano da tutta Italia, non possiamo star zitti! Con quel che sta succedendo, come facciamo ad andare in giro con questo nome...». E Natta: «Vedi, io non considero intoccabile il nome... ma cosa volete fare... Qui crolla un mondo, cambia la storia... ha vinto Hitler... Si realizza il suo disegno, dopo mezzo secolo».
Parole memorabili. Da compagno a compagno. Pronunciate al crepuscolo di una giornata che sta chiudendo un’epoca. Parole che illuminano l’anima di un comunista italiano. Natta ha 71 anni, è stato segretario del Pci subito dopo la morte di Enrico Berlinguer, è un uomo colto, antidogmatico, cultore dell’illuminismo. E come tutti i comunisti della sua generazione - e non solo - pensa che senza il sacrificio dell’Armata rossa, i nazisti sarebbero diventati i padroni d’Europa.
E però dalla battaglia di Stalingrado sono passati 45 anni, decenni nei quali tutti - non solo gli anticomunisti - avevano scoperto quanti milioni di russi fossero morti - in tempo di pace - per le angherie del compagno Stalin. Ebbene, in quelle ore, il pensiero di Natta va a Hitler, quasi che il vincitore di quelle giornate fosse lui e non, per esempio, quei ragazzi in festa.
In quegli stessi momenti, a Bruxelles Achille Occhetto sta incontrando Neil Kinnock, leader dei laburisti inglesi. Che ad un certo punto chiede: «Non pensi che ora il Pci dovrebbe cambiare nome?». E a quel punto, come Kinnock racconterà anni dopo, Occhetto rispose con una litania: «E’ molto difficile... è molto difficile... è molto difficile». E invece, 48 ore più tardi, il segretario del Pci troverà il coraggio. Senza avvertire i giornalisti, in modo da mettere i dirigenti del Pci davanti al fatto compiuto, alla Bolognina il segretario parla davanti ad un drappello di ex partigiani: «Gorbaciov ha incontrato i veterani della seconda guerra mondiale e ha detto loro...».
Il «titanico» Achille sta per annunciare il cambio del nome, ma - ecco un dettaglio rivelatore - il suo modello è pur sempre il segretario generale del Pcus. L’addio al Pci viene preannunciato alle 12,45 del 12 novembre ‘89: sono trascorsi 33 anni dall’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest e sono passati persino 3 giorni dalla caduta del Muro. Aveva scritto il «Times»: «Da sostenitore del movimento riformatore, il Pci rischia di trasformarsi in spettatore del collasso comunista». Già. Dopo aver vissuto dal 1945 in democrazia, come mai il Pci non solo non anticipò gli eventi ma li dovette inseguire? Come mai alla fine il Muro gli cadde addosso?
Certo, il Pci era un prototipo unico in Europa: aveva accettato la Nato, con Berlinguer aveva platealmente strappato da Mosca, aveva consolidato il consenso, predicando la democrazia. Eppure, l’identità comunista restava. In quel nome c’era una concezione del partito (era «vietato» prendere pubbliche decisioni a maggioranza) e della politica. Come sostiene Iginio Ariemma, ultimo portavoce del Pci, «permaneva la presunzione di verità di chi si sente determinante nell’ambizione di raggiungere la Terra promessa». E dunque l’addio al nome fu come cancellare l’utopia mentale di un approdo palingenetico.
È anche così che si spiega lo smarrimento di milioni di comunisti subito dopo la svolta. Sotto il Bottegone si affollarono militanti che, dopo decenni di disciplinato rispetto verso i propri dirigenti, ora li aggrediscono. Luciano Lama viene accolto da grida belluine: «Mafioso!» La Jotti: «Sto’ partito t’ha fatto magna’ e mo’ je vorti le spalle?». Si lacerano le famiglie, qualcuno arriva a divorziare. Nel fondo del cuore, il legame sentimentale con la patria del socialismo, non si era mai spezzato. Quasi che i sovietici fossero dei compagni che sbagliavano?
Dice vent’anni dopo Piero Fassino, uno dei giovani innovatori di allora: «A tenere i militanti legati c’era la speranza che Gorbaciov potesse «riformare» il comunismo. E poi c’era una frase che sentivamo in quelle settimane: che c’entriamo noi con quei regimi?». In realtà ancora nel 1987, Natta (da segretario) aveva accettato il premio Marx nella Rdt di Honecker, ma anche l’onorificenza dal Pcus per i 70 anni dalla Rivoluzione. E nel 1986 quando gli esuli ungheresi decisero una commemorazione di Irme Nagy a Parigi, il leader del Pci consigliò a Fassino: «E’ bene andare, ma forse non è utile parlare».
Anche se l’affresco più potente lo ha scritto, nel suo 1989, Enzo Bettiza che nel marzo di quell’anno si trovò a guidare la prima delegazione dell’Europarlamento in visita al Soviet supremo. In un incontro con altissimi dirigenti sovietici, il vecchio Giancarlo Pajetta, «pallidissimo», chiese di parlare subito, «contro ogni regola di protocollo». Fu contentato: «Io ho dedicato tutta la mia esistenza a sfogliare le pagine bianche della vostra storia, come un cieco che le riteneva immacolate», «però oggi vedo che erano insanguinate», «dovevate aspettare» tanto tempo «per aprirci gli occhi?». Era «l’ultimo urlo del ragazzo rosso in terra sovietica». I dignitari di Mosca «guardavano il soffitto». (la Stampa)
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3 commenti:
L ultima Bufala della fiat :
(La fiat)deve ancora incassare (dallo stato)crediti per 500 milioni di euro relativi agli incentivi per l’acquisto di automobili, al momento anticipati dall’azienda.
Come direbbe totò :
E io pago!!
E io pago!!
Il Fisco restituisce a Fiat 500 milioni di euro
La Fiat chiede, il Fisco esegue. Solo in Italia la rottamazione prevede che sia la casa automobilistica ad anticipare, per lo Stato, il beneficio di cui godono i consumatori. Ma tant’è.
E così la Fiat ha accumulato un credito di 500 milioni nei confronti delle casse dello Stato. Il suo leader, Sergio Marchionne, si secca e chiede a gran voce che lo Stato dia alla Fiat ciò che la Fiat ha anticipato: non fa in tempo a chiedere formalmente il dovuto che i signori dell’Agenzia delle entrate (i signori in cui sono inciampate le banche svizzere in Italia, quelli che vi chiedono indietro 100 euro di Irap non pagati e non dovuti, quelli che quando vi lamentate delle cartelle pazze chiedono rispetto per l’Istituzione e non già per i cittadini) si precipitano a dichiarare che presto verrà restituito il «maltolto». Ma che bello, ma che bravi. Ma che bel quadretto. L’azienda anticipa per lo Stato e le Entrate si affrettano a sanare la posizione. E per di più si predispongono a farlo prima di una richiesta formale.
Se fossimo sofisticati e non con l’anello al naso penseremmo che si tratta di una sottile mossa per rendere sempre più antipatica la Fiat alla totalità degli italiani: una mossa politica per alimentare ciò che nel Paese c’è già in gran misura e cioè l’esasperazione per il privilegio. E sì: la Fiat non solo ha ragione, ma la può vendere. Il punto non è questo. Il punto è che la soddisfazione della ragione del più grande rende più clamorosa la frustrazione del più piccolo e del più debole che invece è sempre più vessato. Abbiamo già scritto dell’uso tutto italiano della contrattazione fiscale con i diversi agenti delle entrate sul territorio. E Befera, il capo dell’Agenzia, ci ha risposto che sono eccezioni. Ma Befera sa cosa succede, solo per fare un esempio, a un professionista con un ufficietto e una stampante, senza segretaria e altri dipendenti, che si azzardi a non pagare l’Irap? Lo sanno all’Agenzia delle entrate che quel poverocristo, nonostante un miliardo di sentenze di Cassazione e persino della Corte costituzionale, viene trascinato in giudizio e in contenzioso. Aspettiamo l’interpello della Fiat, fanno sapere dall’Agenzia. Ma certo. Andate a Torino a prendere anche una tazza di tè con il loro direttore amministrativo: anzi scrivetelo insieme questo bel «interpello formale».
È evidente che lo spirito che anima questo articolo è di pura invidia. La Fiat si merita il rimborso. Detto per inciso i fornitori Fiat, piccoli e grandi, sembrano le vittime di questo ritardo. Il meccanismo è semplice. Lo Stato vara gli incentivi alla rottamazione. La Fiat vende a più non posso. Anticipa gli incentivi ai propri clienti. E ritarda, quanto può, i pagamenti ai propri fornitori che fanno da banca per mamma Fiat. E il cerchio si chiude sulla subfornitura: ma questo è un altro discorso. Parlavamo di invidia, che ci muove. È quella che avevamo per la Fiat quando otteneva dalle banche il Fiat rate, qualche punticino sotto i migliori tassi di mercato. Da oggi la Fiat gode del Fisco rate. Se chiede, l’Agenzia esegue. Ecco si potrebbe dire che l’universo di imprese italiane, 5,6 milioni di cui solo 1.600 con più di 500 dipendenti, vorrebbe dallo Stato il trattamento Fiat. Per carità: magari non dategli incentivi, sussidi e detassazioni di utili, che tanto non hanno. Ma dategli un Fisco amico, esattori che capiscano che il loro stipendio è pagato dalla produzione delle nostre imprese. È chiedere troppo?
di Nicola Porro
Sempre totò:
C'è chi può e chi non può: io modestamente può
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