La telenovela di Alitalia non sembra avviarsi a una conclusione, e decisamente non a un lieto fine, se perfino il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi viola il tabù e comincia a parlare di rischio fallimento. Si tranquillizzino, piloti e dipendenti: la bancarotta non ci sarà, perché in un modo o nell'altro il governo ci metterà una pezza.
Ma è un bene? No. Quando una compagnia si trova nelle condizioni del vettore di bandiera, ci sono due strade: portare i libri in tribunale oppure venderla. Venderla, però, sul serio: bandendo un'asta vera e propria in cui il maggior offerente si aggiudica i resti del gruppo, senza dover rispettare improbabili paletti e non lasciando alcuno spazio all'arbitrio della politica.
Se Alitalia si trova in uno stato comatoso è infatti proprio a causa delle continue incursioni governative e del potere di fatto dei sindacati, che si muovono ai piani alti della compagnia come i gangster della Chicago anni Venti. Il risultato è che i dipendenti di Alitalia, specie alcune categorie, godono di condizioni a cui nessun loro collega in nessuna parte del mondo può neppure aspirare. Buon per loro, si dirà, ma a lungo andare questo comportamento può produrre solo inefficienza e buchi di bilancio. Come si è verificato. L'aspetto più sconfortante dell'intera vicenda è che le criticità sono sotto gli occhi di tutti. Al punto che l'amministratore delegato Maurizio Prato ha proposto un piano di rilancio preciso e ragionevole. Peccato che, come ha rilevato Andrea Giuricin in un suo studio per l'Istituto Bruno Leoni, il piano non sia credibile: se i sindacati non hanno concesso neppure un'unghia fino ad ora, perché mai dovrebbero cambiare atteggiamento? Non lo faranno, se non costretti. E non c'è modo di costringerli finché Alitalia resta in mano pubblica, cioè soggetta agli andirivieni della politica. Si torna, allora, al punto di partenza: che fare?
Che la via maestra sia la privatizzazione, nessuno lo discute. Che venderla per trattativa privata sia uno strumento spuntato, lo dimostra l'anno perso da quando il governo annunciò che avrebbe ceduto la compagnia. Non resta, dunque, che bandire un'asta competitiva, ben sapendo che - se dovesse spuntarla Air One - si porrebbero grossi problemi di natura antitrust per cui sulle principali rotte andrebbero liberati degli slot. Resta un ultimo dubbio: anche al netto delle pressioni dei sindacati, la legislazione del lavoro in Italia è quella che è, e i necessari adeguamenti non sarebbero facili. Il governo, dunque, dovrebbe impegnarsi a non mettere più il becco negli affari della compagnia. E se, anche a queste condizioni, nessuno si facesse avanti? C'è un solo modo: regalatela. A chi volete, ma datela via. I contribuenti non potrebbero ricevere per Natale un dono più bello che scrollarsi Alitalia dal groppone.(Il Tempo)
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2 commenti:
e il liberista Silviuzzo non poteva pensarci nel quinquennio?
i comunisti dovrebbero farlo?
che pazza italietta...
In questo paese di smemorati selettivi, si può dire tutto e il contrario di tutto senza mai vergognarsi. Capita persino di sentire l'ometto che ha rovinato gli ultimi 5 anni di vita a Enzo Biagi raccontare la sua affettuosa amicizia con Enzo Biagi. E chi raccoglie le sue dichiarazioni, anziché sputargli in faccia ricordandogli il diktat bulgaro e gl'insulti dei servi sciocchi e furbi, le registra con freddezza anglosassone. Ricordate il pm Woodcock? Il 18 giugno 2006, nel salotto dell'insetto, Gianfranco Fini dichiarò che «in un paese civile quel pm avrebbe già cambiato mestiere». Quel pm era colpevole di avergli arrestato il portavoce, Salvatore Sottile, quello che faceva i colloquiorizzontali alle aspiranti veline alla Farnesina, tra stucchi e feluche; e di avergli intercettato la moglie Daniela, impegnata in vari traffici con la Regione per le sue cliniche. Bene, ieri il gip di Roma ha rinviato a giudizio Sottile per peculato: usava l'auto di servizio per mandare a ritirare la «merce», cioè le ragazze, e farsele portare in ufficio. E qualche mese fa Fini ha lasciato la signora Daniela, troppo impegnata nel ramo sanità. In un paese civile, almeno un giornalista che chiede a Fini se non intenda «cambiare mestiere» lo si troverebbe. Invece ha ragione Fini: non siamo un paese civile.
Ricordate la Procura di Palermo? Un'ampia e variegata letteratura giornalistica, che va dal Foglio a Panorama, dal Giornale al Riformista, l'ha dipinta come un nido di vipere così impegnate a farsi la guerra fra "caselliani" e "grassiani" per trovare ancora il tempo di fare le indagini. Insomma, «il pool è morto» da quando a guidarlo non c'è più Piero Grasso, indegnamente sostituito da Francesco Messineo che ha addirittura deciso di avvalersi di tutti i pm antimafia, anche quelli defenestrati dal predecessore. Non s'è ancoraasciugato l'inchiostro delle ultime paginate, ed ecco che il «pool morto» riesce a far arrestare il nuovo capo di Cosa Nostra, erede di Provenzano ma un filo più operativo del vecchio boss tutto pannoloni, dentiere e prostatiti. Sappiamo bene che le catture dei latitanti sono anzitutto merito delle forze dell'ordine, anche se quando fu preso lo Zu Binnu molti spacciarono l'operazione come il trionfo di Grasso, peraltro già a Roma da mesi in un ruolo - quello di capo della Procura nazionale - che non c'entra nulla con indagini e catture. Dunque, il merito della cattura dei Lo Piccolo è anzitutto alla squadra catturandi della Questura. Si dà il caso però che si sia arrivati al boss grazie a un pentito, e che quel pentito sia stato «gestito» dal procuratore aggiunto Alfredo Morvillo, cognato di Giovanni Falcone, e dai sostituti Gaetano Paci e Meo Gozzo, che la vulgata negazionista degli ultimi anni ha bollato come "caselliani", dunque incapaci di acchiappare i «veri mafiosi». Gozzo, insieme a Ingroia, ha sostenuto l'accusa nel processo Dell'Utri, condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (sentenza paragonata da esponenti della Cdl alle «rappresaglie dei nazisti in fuga»). E Paci è il pm che scoprì i legami di Cuffaro con il boss Guttadauro. Ma, siccome insisteva per contestare al governatore il reato di concorso esterno, mentre Grasso e altri preferivano il più blando favoreggiamento, fu estromesso su due piedi dal «suo processo. Qualche mese fa, il presidente della commissione Antimafia, Francesco Forgione, diede il resto, respingendo la proposta dei Comunisti italiani nominarlo consulente - part-time e a titolo gratuito - dell'insigne consesso parlamentare: questo Paci - spiegò - è una testa calda, uno che chiede addirittura la condanna dei suoi imputati, insomma uno da tenere a distanza. Ora sarebbe forse il caso che qualcuno chiedesse scusa a Paci, ma non succederà. Anzi, D'Avanzo ci spiega che la catturadi Lo Piccolo è «un successo che viene da lontano, da un'altra stagione giudiziaria». Diavolo d'un Grasso: riesce a catturare i latitanti anche dal suo ufficio a Roma! Altro che Messineo, Morvillo, Paci e Gozzo: è stato il superprocuratore che, con i suoi superpoteri, seguita a effondere i suoi balsamici effluvi su Palermo anche a migliaia di chilometri di distanza, anche per contrastare i malefici dell'orrido Caselli. Qualche ingenuo domanderà: ma, se gli elementi per catturare Lo Piccolo eran già disponibili nell'«altra stagione giudiziaria» (cioè addirittura prima dell'arresto di Provenzano), perché lasciarlo libero fino all’altroieri? Ma che domande: per aumentare la suspence, no?
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