venerdì 17 agosto 2012

Diversamente montiani. Luca Ricolfi

E’ ormai chiaro a tutti che, alle prossime elezioni politiche, il discrimine principale sarà il giudizio sull’operato del governo Monti. Le forze politiche che criticano Monti «senza se e senza ma» sono almeno quattro: Lega Nord (Maroni), Italia dei valori (Di Pietro), Movimento Cinque Stelle (Beppe Grillo), Sinistra Ecologia Libertà (Vendola). Insieme, secondo i sondaggi degli ultimi mesi, sono in grado di attrarre oltre il 40% dei voti. Se aggiungiamo i nostalgici del fascismo e del comunismo, il fronte delle liste anti-governo (e spesso anche: anti-euro, anti-Europa, anti-austerità) arriva al 45%.

E dall’altra parte?

Dall’altra parte, sul fronte dei non-ostili a Monti, per ora troviamo i tre partiti che appoggiano il governo (Pdl, Pd, Udc), che attirano sì e no il 50% dei voti, più un certo numero di piccole formazioni politiche, più o meno visibili e più o meno ben rappresentate in Parlamento.

In teoria le forze non-ostili al governo prevalgono ancora su quelle ostili, però il problema è che il loro giudizio sul governo Monti è estremamente articolato, per usare un eufemismo. E anche ove allargassimo il quadro, immaginando che scendano in campo nuovi soggetti e nuove liste (Montezemolo, Marcegaglia, Giannino…), lo spettro dei giudizi sul governo resterebbe molto ampio, probabilmente ancora più ampio di come si presenta attualmente. Insomma, il fronte dei non-ostili può anche arrivare al 55% dei consensi, ma è profondamente diviso al suo interno.

Ma da che cosa dipende tale divisione?

In parte da ragioni ovvie. Dentro il fronte dei non-ostili ci sono il principale partito di destra (Pdl), il principale partito di sinistra (Pd), il principale partito di centro (Udc). E’ come dire che la spettacolare crescita del fronte anti-Monti (e segnatamente del movimento di Beppe Grillo) ha compresso e confinato la naturale dialettica destra-sinistra entro una piccola porzione dello spazio politico: il 55% dei voti validi, corrispondenti al 40% del corpo elettorale, tenuto conto di astensioni, schede bianche e schede nulle. Ciascuno di questi partiti, in campagna elettorale, non potrà che presentarsi secondo la formula «montiano sì, ma a modo mio», se non altro perché altrimenti non saprebbe come chiedere per sé stesso anziché per uno degli altri due partiti (attualmente) alleati.

C’è tuttavia anche una ragione non strettamente politica, più seria e più profonda, per cui il fronte montiano è diviso. E questa ragione è che le forze che sostengono, o comunque apprezzano almeno in parte, l’azione del governo Monti non condividono la medesima diagnosi sui mali dell’Italia e – non condividendo la diagnosi – tendono a divergere anche nella terapia. Ne è una testimonianza l’aspra battaglia che, giusto in questi giorni, infuria fra economisti sul modo migliore di ridurre il debito pubblico. E se anche stiamo al solo dibattito sulla politica economica, non è affatto chiaro che cosa «essere montiani» possa significare oggi, e tantomeno domani in campagna elettorale. Perché se togliamo alcuni punti fissi importanti ma davvero minimali – il non ritorno alla lira, l’ancoramento alle istituzioni europee, un minimo di disciplina fiscale, una certa sobrietà nello stile di governo –, sulla maggior parte del resto non esiste una «Agenda Monti», ma ne esistono più di una. Certo, fra le molte agende Monti possibili, ce n’è una che è la più ovvia perché la più conforme all’originale: andare avanti così. Ma nessuno, forse nemmeno l’Udc, la sottoscriverebbe senza riserve: perché l’azione del governo Monti è sì fatta di scelte coraggiose, ma è anche costellata di errori, marce indietro, timidezze, promesse non mantenute (che ne è dei pagamenti della Pubblica amministrazione alle imprese?).

Con questo non voglio dire che ci siano tante agende Monti quanti sono gli economisti di questo Paese, però – anche solo a leggere la stampa specializzata – di punti controversi, su cui bisognerà pronunciarsi per costruire un’agenda coerente, ve ne sono parecchi, che ridurrei ad almeno tre.

Il primo, forse il più importante, è come ritornare alla crescita. C’è chi pensa che senza una drastica riduzione delle tasse sui produttori (Irap e Ires innanzitutto), proseguirà lo smantellamento dell’apparato produttivo dell’Italia, e che per permettere tale riduzione non si possa che tagliare la spesa pubblica di alcuni punti di Pil. E c’è chi pensa, tutto all’opposto, che i nostri problemi siano essenzialmente problemi di domanda: per tornare a crescere occorre ridurre le tasse sulle famiglie, sostenere i consumi interni, varare progetti infrastrutturali (anche a livello europeo), limitare i tagli alla Pubblica amministrazione. Su questo va in scena il classico duello fra liberali e keynesiani.

Il secondo punto controverso, in parte connesso al precedente, è come agire sul nostro immane debito pubblico. Qui, dentro lo stesso fronte montiano, le proposte si sprecano: super-patrimoniale una tantum, patrimoniale leggera ma permanente, consolidamento più o meno esplicito del debito, vendita delle aziende pubbliche, dismissioni immobiliari, solo per richiamare alcune delle idee in campo. Su questo terreno, il punto chiave – il punto che divide – è su chi far pesare il conto di mezzo secolo di dissennatezze della classe politica: sul ceto medio-alto (patrimoniale), sui detentori di titoli pubblici (consolidamento), o sullo Stato e gli Enti locali (dismissioni).

Il terzo punto può sembrare accademico, ma lo è solo apparentemente. Nel fronte montiano convivono due diagnosi diverse sul funzionamento dei mercati finanziari. Da una parte l’ortodossia montiana, secondo cui i mercati non rispecchiano adeguatamente i fondamentali delle economie, e vanno quindi corretti attraverso gli strumenti di cui la politica può dotarsi: Banca Centrale Europea, scudo anti-spread, fondi salva-Stati, Tobin tax. Dall’altra l’idea – montiana anch’essa, ma del Monti professore – che quelli dei mercati siano segnali utili, e che la via maestra per correggere i mercati non sia deplorarli o imbrigliarli, ma rimettere a posto i fondamentali. E’ perché ci sono queste due visioni del funzionamento dell’economia, e non perché ci sono la destra e la sinistra, che l’altalena dello spread riceve sistematicamente due letture diverse. Ed è perché tali diverse visioni comportano linee d’azione a loro volta diverse che anche questo è un punto di frattura rilevante nel fronte montiano.

Se questo è il panorama, non è dei più confortanti per i cittadini-elettori. Chi detesta Monti e non teme il salto nel buio di una politica anti-europea, dovrà solo scegliere se dare il suo voto a un partito-zattera, pieno di vecchie glorie, come presumibilmente saranno Lega, Italia dei valori, e forse anche il partito di Vendola, oppure a un partito-novità, necessariamente pieno di outsider, come non potrà non essere la lista di Grillo. Ma chi apprezzasse qualcosa del governo Monti, o semplicemente diffidasse della gioiosa macchina da guerra dei nemici di Monti, dovrebbe fare i conti con la triste realtà che abbiamo provato a descrivere: solo la nostra distrazione, nonché la buona educazione dei protagonisti, riescono a nascondere la cacofonia di voci – e di ricette di politica economica – che si leva dal vasto fronte di quanti aspirano a raccogliere l’eredità di Monti.(la Stampa)

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