«Il sequestro dei reparti più inquinanti dell’Ilva non muta di una virgola il quadro che i magistrati hanno dipinto nella loro conferenza stampa, ma manda all’azienda un messaggio molto forte: l’Ilva non può più tirare a campare, non può più continuare con il suo atteggiamento contemporaneamente assente e arrogante, ma deve ragionare seriamente su come risolvere una situazione gigantesca», afferma in una intervista alla Stampa il governatore della Puglia Nichi Vendola, che evidentemente dimentica che la denominazione “Ilva” spunta nel 1988, quando Italsider e Finsider vennero messi in liquidazione.
Italsider e Finsider erano i due colossi pubblici dell’Iri che scomparvero nel nulla, e con loro le vere responsabilità di un cinquantennio d’inquinamento. E questo Vendola lo sa bene, perché della questione inquinamento a Taranto se ne occupava già dai tempi del vecchio Pci, quando l’Ilva era pubblica e i sindacati erano più preoccupati dal mantenimento dei posti di lavoro che dalle morti per tumore. Il governatore pugliese sa altrettanto bene che la nuova Ilva venne smembrata alla vigilia del grande processo di privatizzazione progettato dall’allora presidente dell’Iri Romano Prodi. Ceduti gli impianti di Cornigliano e chiuso quello di Bagnoli, l’acciaieria di Piombino veniva venduta al gruppo bresciano Lucchini (di proprietà del “re del tondino”, uno dei padri del boom economico degli anni ‘50) mentre l’attività più significativa, il grande polo siderurgico di Taranto, passava solo nel 1995 dallo stato al Gruppo Riva (uno dei pilastri privati della fonderia italiana).
Ma fino al 1995 l’Iri aveva spremuto le fonderie tarantine senza mai spenderci sopra una lira in sicurezza e manufatti antinquinamento. Riva acquista l’Ilva di Taranto promettendo a politica e sindacati di salvaguardare i posti di lavoro: ma già dal giorno dopo la privatizzazione iniziano le lotte ambientaliste per la chiusura della fonderia. E Vendola, con chi era in quel 1995? Se la memoria non ci inganna, parteggiava per «la chiusura senza se e senza ma». Oggi il governatore rivede le sue idee, quindi ammette che «tra gli ambientalisti che valutano come soluzione migliore la chiusura dell’azienda c’è un pregiudizio reazionario». «Se seguissimo la loro strada - aggiunge Vendola - che dovremmo fare, riconvertire in pastorizia ventimila lavoratori? Pensiamo davvero che l’economia italiana possa fare a meno dell’industria per dare vita all’epoca del bricolage?». Un Vendola così da realpolitik non lo si era mai sentito. «In ogni caso, sarebbe paradossale che non si riuscisse a comporre il conflitto tra lavoro e salute proprio quando abbiamo tali e tante innovazioni tecnologiche che consentono di abbattere l’inquinamento». Vi aspettavate queste parole dal leader di Sinistra ecologia e libertà?
Ma va anche oltre, e democristianamente parlando ammette: «Nessuno pensa che il problema si risolva da un giorno all’altro... gli stessi magistrati sono disposti a rimodulare, modificare o addirittura a sospendere il provvedimento di fronte a un impegno concreto dell’Ilva». Nella chiosa, Vendola ammette che «tutta la classe dirigente italiana, politica e non politica, spesso e volentieri ha fatto finta di non vedere». Imbarazzo e contraddizioni imbrigliano anche il Sel, che quella regione governa da due legislature. (l'Opinione)
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