La Repubblica giudiziaria dilaga, supponendo possibile trascinare nelle aule giudiziarie qualsiasi tipo di conflitto. Sociale, economico, culturale o religioso che sia. La risposta politica latita, perché ubriacata da decenni di giustizialismo vendicativo, contrapposto a innocentismo dissennato. Nel tramontare del diritto e delle idee, si assiste allo scontro fra due contrapposti “sostanzialismi”: quello che ritiene prevalente la sostanza della presunta verità, rispetto alla forma del procedimento giudiziario, e quello che immagina si possa fermare quella macchina infermale laddove i provvedimenti giudiziari provocano, nella sostanza, danni alla collettività. E’ uno scontro fra torti e storti, che impiomba l’Italia e la fa degradare.
Alla radice della deviazione vi è la viltà con cui la politica ha delegato alla giustizia scelte e indirizzi difficili. La patologia cominciò con la lotta al terrorismo e continuò con quella alla mafia. Ovviamente giuste, ma impostate in modo tale da far crescere enormemente l’indeterminatezza della norma e la discrezionalità del giudizio. Il tutto nelle mani di un potere, quello giudiziario, che la Costituzione voleva “ordine”, ma che si è trovato ad agire con le garanzie di chi aveva il solo compito di dar voce alla legge, salvo divenire legge a sua volta (sia con le interpretazioni che con il divorzio fra misure cautelari e giudizio).
Questi giorni ci consegnano due esempi. Quello della Fiat, ove il giudice segnala al mondo che aprire imprese in Italia significa non avere il controllo del fattore lavoro, quindi avverte che è meglio non venire, o scappare. Ha torto, il giudice? I torti e le ragioni dei giudizi si sanano e confermano in giudizio. Ogni altra strada svelle le regole esistenti. Il punto è che se si fanno leggi che puntano a tutelare non i lavoratori, e con essi il mercato, ma l’influenza dei sindacati poi non ci si deve stupire se l’equivocità di tale dettato si presta a operazioni come quella in corso. Il secondo esempio e quello dell’Ilva. Qui accadono cose singolari: 1. a fronte del primo sequestro un ministro chiese l’immediato riesame, come se la rivalutazione delle misure cautelari non sia sempre urgentissima; 2. dopo tale riesame il gip insiste nella sua tesi e punta alla chiusura dello stabilimento; 3. il ministro della giustizia chiede di “acquisire gli atti”, che in altri tempi sarebbe stato considerato un gesto insurrezionale; 4. il governo annuncia ricorso alla Corte costituzionale, sostenendo che la politica industriale è propria competenza (e ci mancherebbe!); 5. il ministro dell’ambiente sostiene che il giudice è in conflitto con le autorità competenti; 6. infine il presidente del Consiglio annuncia l’invio dei ministri in quel di Taranto, per rimediare all’azione giudiziaria. Il risultato è l’impazzimento totale, cui si aggiunge la voce eguale dei due grossi partiti, Pdl e Pd, che chiedono al governo di contrastare l’azione del giudice.
Domanda: perché per l’Ilva di Taranto si registra non solo tale convergenza, ma l’unanime voce dei più influenti giornali (segnalo che il Corriere della Sera ha titolato in prima dando del “rossa” alla signora giudice, precisando in cronaca che trattasi dei capelli), nel considerare esecrabili i provvedimenti adottati? Dipende dal fatto che è divenuto macroscopico il danno della Repubblica giudiziaria, capace solo, per definizione, di proibire, impedire e punire, ma mai di costruire. Ma, del resto: cosa può fare un giudice, nel caso in cui gli si sottoponga l’ipotesi che una determinata attività provochi il cancro alla gente che si trova lì attorno? Messa così è una questione senza vie d’uscita. Invece ci sono, e riguardano la gerarchia dei poteri e delle decisioni, nonché la chiarezza delle norme.
Fare impresa in Italia non deve essere più difficile che in altre parti non dico del mondo, ma dell’Unione europea. Le acciaierie, come altre produzioni, non creano delle riserve naturali, inquinano. Come tante altre attività umane, cui nessuna persona sensata rinuncerebbe. Eppure quelle attività contribuiscono a far crescere la ricchezza di una collettività, rendendole possibile accedere a un più diffuso benessere, una più evoluta assistenza sanitaria, a una maggiore istruzione collettiva. Queste cose non possono essere ricercate ad ogni costo, naturalmente, esiste un punto di equilibrio, ma da noi non può essere diverso da quello che c’è in Germania, in Polonia o in Francia. Vale per ogni cosa, perché in caso contrario succede quel che è successo e che ci porta alla rovina, ovvero che la nostra produttività cala, lo sviluppo frena e il bilancio pubblico salta, o punta ad un appello eccessivo e insopportabile al prelievo fiscale.
Detto questo, la colpa non è dei giudici, perché, lo ripeto, le loro decisioni sono sottoposte a un iter decisionale che conterrebbe in sé il sistema per correggersi. Salvo il fatto che non funziona più, da molto tempo. Non funzionava quando è divenuto clava per la battaglia politica. Non funziona oggi, che la clava demolisce il resto. Ma la colpa è del legislatore, che non ha avuto il coraggio e la forza di regolare diversamente le cose. Di dire che la Repubblica giudiziaria era ed è la morte del diritto.
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Da 49 notti stiamo occupando il cantiere di autocostruzione di Filetto (RA).
Con il termine autocostruzione nel campo dell'architettura si indicano le strategie per sostituire con operatori dilettanti le imprese che, in una struttura produttiva evoluta, si occupano normalmente della realizzazione dell’edificio per conto dei suoi futuri utenti.
La storia inizia otto anni fa, quando l’Alisei Ong propose a diversi Comuni italiani di risolvere il problema dell’alloggio per le fasce sociali più deboli, offrendo una casa a prezzi inferiori di almeno il 50% rispetto a quelli di mercato. Iniziò così l’avventura di tanti autocostruttori.
Questo l'esito dei progetti avviati da Alisei ONG Alisei ONG, riconosciuta e finanziata dal Ministero degli Affari Esteri, dal Ministero del Lavoro, dalla Commissione Europea e dalle principali agenzie delle Nazioni Unite nonchè dalla Banca Mondiale, che ha come mission: "combattere le diseguaglianze, l'esclusione sociale e la povertà", o da società riconducibili ad essa:
AMMETO MARSCIANO - PG: concluso nel 2007, gravi difetti di costruzione, infiltrazioni,
GABELLETTA - TERNI: nessuna informazione,
RIPA - PG: concluso,
BESANA BRIANZA - MI:nessuna informazione,
PADERNO DUGNANO - MI: non risulta avviato,
TREZZO SULL'ADDA - MI fermo dal 2009,
PIEVE EMANUELE - MI: fermi, mancano 1,3 milioni di €,
VIMODROME - MI: cantiere interrotto da 3 anni,
CASAMAGGIORE - CR: concluso con problemi strutturali, i proprietari abitano all'interno senza avere rogitato.,
SANT'ENEA - PG: finito nel luglio 2012,
SANPOLINO - BR: case rase al suolo,
BAREGGIO - MI: annullato,
PADOVA: concluso, ma con fondi del Ministero,
PESCOMAGGIORE - AQ: concluso, ma con fondi post- terremoto,
CADONEGHE - PD: cantiere bloccato da gennaio 2012,
PIEDIMONTE CE: in corso,
VILLARICCA - NA: in corso,
PIANGIPANE - RA: terminato con un finanziamento della Regione.
SAVARNA - RA: avviato nel 2005 non è ancora stato completato,
FILETTO - RA: bloccato dal luglio 2009, buco di 500.000 €,
Matteo Mattioli - 3382019094
http://difesaconsumatori.eu/
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