In principio furono i cervelli. I primi a comprendere che in un’Italia senza meritocrazia non c’era futuro. Tecnici e scienziati che hanno fatto le valige per cercare all’estero quelle opportunità che la patria negava loro.
Poi è toccato agli industriali: con una pressione fiscale tra le più alte al mondo, un sistema sindacale ottuso, una giustizia civile lenta come una tortura e una burocrazia da stato leviatano, provare a fare gli imprenditori in Italia era qualcosa di troppo difficile per definirla soltanto un’impresa. Figurarsi poi pensare di convincere uno straniero a tentare l’impresa da noi.
Poi è stata la volta dei ricchi. Chi aveva una barca, un auto di lusso, un bel dipindo o un conto con qualche zero in fondo ha impacchettato tutto e se n’è andato all’estero, magari dove il fisco chiude anche più di un occhio.
Ora tocca agli immigrati. Lo dice l’ultimo studio di Unioncamere: persino quelli che una volta facevano tutti quei lavori che gli italiani non volevano fare hanno capito che, adesso, in Italia (e per l’Italia) non c’è più niente da fare.
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