martedì 14 agosto 2012

Io cattolico e il conformismo sui gay. Io cattolico, i media gli anni Settanta. E quel conformismo sugli omosessuali. Marcello Messori

Qualche tempo fa - pare per uno sgradevole incidente o per colpevole pigrizia - il redattore di non so quale documento pubblico ha proceduto a un rovinoso copia-incolla. Trattando di omosessuali, ha attinto di peso da un Manuale per le Forze dell' Ordine degli anni Cinquanta, dove si parla di «ambienti ambigui», «giri torbidi», «passioni oscure», «amori inconfessabili». E via imprecando e deprecando. La cosa è stata subito notata e, come doveroso, si è provveduto a cestinare quell' imprevisto reperto di una prospettiva da tempo improponibile. Ma chi, come me, era già nei giornali in anni lontani, ha letto con un sorriso un po' amaro le reazioni sdegnate, se non furibonde, di certi colleghi, molti dei quali non più giovani. Le loro rampogne senza appello per l' episodio, le loro richieste di licenziamenti con infamia dei colpevoli, dimenticano che essi stessi, o i loro giornali, hanno usato quei toni e quegli epiteti e non solo per conformismo al «politicamente corretto» dell' epoca ma, probabilmente, per autentica convinzione. Ebbene, il disteso clima estivo, favorevole anche agli esami di coscienza, mi suggerisce di rievocare un ricordo, forse non irrilevante. Era l' autunno del 1971, terminavo il mio praticantato giornalistico in un quotidiano torinese. Passando per la centralissima piazza Solferino (la sorpresa fu grande, dunque la memoria è vivida) fui colpito da un manifesto con la scritta F.U.O.R.I, seguita da un punto esclamativo. Mi avvicinai e scopersi che l' acrostico stava per «Fronte Unitario Omosessuali Rivoluzionari Italiani». Il testo che seguiva era firmato da Angelo Pezzana, un libraio giovane ma già noto e stimato: io stesso ne ero saltuario cliente, senza nulla sospettare. Non ricordo se altri si fossero esposti, firmando l' appello pubblico. Quel manifesto era davvero storico: per la prima volta - ma proprio la prima, almeno in Italia, e giusto a Torino - usciva allo scoperto, rivendicando non solo il diritto a manifestarsi ma, tout court, ai diritti umani, un mondo da sempre esistente eppure sconosciuto, celato, indicato solo con termini di offesa o di condanna. Lessi incredulo e, da buon cronista di «bianca», raggiunsi in fretta il giornale. Raccontai d' un fiato la novità al capocronista, proponendo subito un articolo, un' intervista a Pezzana. Intendiamoci, non mi sentivo il reporter coraggioso dei film americani, non mi muovevano nobili sentimenti come la ricerca di giustizia per chi doveva nascondere la sua vita privata, sempre timoroso che venisse violata. Ci ho pensato spesso, negli anni seguenti, interrogandomi soprattutto - essendone coinvolto - sul silenzio e l' indifferenza anche da parte cattolica. Eppure, per il credente dovrebbe esserci qui un motivo di profonda riflessione: se l' omosessualità, in ogni tempo e in ogni luogo, marca e marcherà sempre una percentuale (che sembra fissa), dell' umanità, può forse trattarsi di un «errore» del Creatore? Che sono, questi nostri fratelli in umanità? Sono forse «scarti di lavorazione»? Perché Dio e la sua Provvidenza non siano offesi, occorre riconoscere che anche questo fa parte, enigmaticamente, del piano da Lui voluto e da Lui attuato. La teologia, qui, ha ancora molta strada da fare. In ogni caso, quel giorno, in cronaca, ciò che mi preoccupava era soltanto l' istinto del mestiere. Se il nostro, di mestiere, era dare delle notizie, quale notizia maggiore dell' uscita dalle catacombe, per giunta con toni battaglieri e rivendicativi, di un popolo da sempre nascosto? Bisognava muoversi al più presto, soprattutto per precedere l' altro quotidiano locale. Il capo mi ascoltò in silenzio, con aria ironica, commentando alla fine: «Mi dispiace proprio, non sapevo che anche tu fossi uno di quelli!». Gli replicai che proprio perché non lo ero né temevo di diventarlo, non avevo complessi o paura di ricatti: dunque, se mi dava il via, andavo con un fotografo in libreria a incontrare «l' omosessuale rivoluzionario» che aveva infranto la legge millenaria del silenzio. A questo punto, il capo chiamò a testimoni, ad alta voce, gli altri cronisti presenti nello stanzone: «Ehi, ragazzi, ' sto pivello di praticante vuol andar dietro ai "cupi". Adesso si sono fatti un loro sindacato, una specie di partitino, roba da matti! E secondo questo qui, noi dovremmo anche intervistarli, manco fossero prime donne». Per intenderci: «cupio», in torinese, è l' equivalente del «frocio» romanesco. All' allarme beffardo del capocronista vennero dai colleghi battutacce, pernacchie, scuotimenti ironici di teste: «Pure lui, chi l' avrebbe detto!». La reputazione fu salva solo perché era evidente il mio assiduo interesse per l' altro sesso. Comunque, nessuna notizia andò in pagina, né il giorno dopo né quelli seguenti, ma non ci fu alcun problema di concorrenza: neanche gli altri quotidiani pubblicarono alcunché. Tacque rigorosamente anche la redazione torinese de l' Unità: il perbenismo comunista superava quello clericale e per «i diversi», nell' Urss, c' era il Gulag, in Cina il colpo alla nuca, a Cuba i lavori forzati, nell' Africa allineata ai russi il «capestro». Ma passò qualche tempo, il F.U.O.R.I.! pubblicò un mensile che in edicola ebbe un buon successo, organizzò qualche manifestazione clamorosa, insomma divenne impossibile ignorarlo, anche perché dall' estero giungevano notizie di movimenti analoghi, ancor più agguerriti. Parlarne, ma come? Stando a quanto ha scritto lo stesso Angelo Pezzana, risulterebbe da un' inchiesta che, prima degli anni Settanta, sui giornali italiani non apparve mai la parola «omosessuale», usando - se proprio era necessario - «invertito» o, nei casi più benevoli, «diverso». Quando, alla fine, anche il mio quotidiano, dovette occuparsene, ero passato ad altri settori, non mi occupavo più di cronaca, dunque neanche di «quelli là», come li chiamavano. Ma fu significativo assistere alla ricerca di cronisti «volontari», di temerari che accettassero di firmare un articolo sui «cupi». Tutti si schermivano, dicevano con chiarezza che avevano paura di essere scambiati per uno che difendeva una parte che era anche la sua. Ora: una buona dose di conformismo contrassegna sempre chi lavora nei media. Ma proprio per questa obbedienza di tanti giornali alle mode culturali del tempo, è sgradevole lo sdegno di chi, oggi, vede ovunque «omofobia», sale in cattedra e invoca punizioni esemplari per chi ne sarebbe colpevole: per quanto conta sono testimone che, nella categoria, tante conversioni furono assai tardive, spesso obbligate. E ho visto di persona tanti conformisti attuali, paladini oggi di cause ormai stravinte, nascondersi un tempo sotto le scrivanie, pur di non dover firmare pezzi su quelli che definivano «invertiti». (Corriere della Sera)

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