Mario Calabresi è un caso fortemente emblematico: la sua rapida e immeritata carriera racconta esemplarmente le psicosi e le ipocrisie italiane, e ci aiuta a capire il nostro disgraziato Paese. Il fatto che non se ne possa parlare, se non in termini encomiastici, e che chi ne parla venga subissato di insulti, è un’ulteriore prova della sua centralità (oltreché, naturalmente, dell’ipocrisia italiana). Torno dunque a scriverne, senza i rigidi limiti (e le semplificazioni) imposte da Twitter.
Ho cominciato a chiamare pubblicamente Mario Calabresi l’Orfanello dopo aver visto la prima puntata del suo programma su Rai3 dello scorso anno. Anziché parlare dell’Italia, Mario Calabresi parlava di sé: cioè della sua tragedia personale e familiare. La tecnica è ben nota agli americani: non si vendono fatti e opinioni, ma personaggi e storie (Obama non si è lanciato verso la Casa Bianca con un saggio politico, ma con un’autobiografia). Nulla di male né di strano, dunque: nel teatro mediatico-politico Mario Calabresi ha scelto di impersonare l’Orfanello. Lo aveva fatto con un libro di successo, con innumerevoli presentazioni pubbliche e comparsate televisive, e persino con una stucchevole cerimonia quirinalizia.
Il punto è che Mario Calabresi è un orfano del tutto particolare. Quando suo padre, il commissario Luigi Calabresi, fu assassinato sotto casa dai sicari di Lotta continua, tutta l’Italia democratica e antifascista, tutta l’Italia dei salotti e delle redazioni brindò spensierata e allegra. Perché il commissario Calabresi era il responsabile – morale, politico, simbolico – di un altro omicidio: quello di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico ingiustamente sospettato per la strage di piazza Fontana, illegalmente trattenuto da Calabresi in questura e infine misteriosamente volato giù da una finestra del quarto piano. Calabresi aveva una vera e propria ossessione per anarchici e “cinesi”, come allora venivano chiamati gli extraparlamentari; mentì più volte su Pinelli; era famoso per i metodi spicci, da “duro”.
Camilla Cederna scrisse un manifesto contro di lui, pubblicato dall’Espresso e sottoscritto dalla crema del giornalismo e dell’intellettualità italiana (fra cui Natalia Ginzburg, la cui nipote Caterina è oggi la moglie di Mario). Quando Calabresi fu ammazzato, nessuno dei firmatari versò una lacrima o condannò l’omicidio. E vent’anni dopo, quando finalmente un magistrato formalizzò ciò che tutti sapevano da sempre, e cioè che era stata Lotta continua ad organizzare l’attentato, quella stessa opinione pubblica democratica e antifascista insorse sdegnata in difesa di Adriano Sofri.
Quel che è troppo, è troppo: persino nella sinistra italiana. E così, quello stesso mondo che brindò alla morte del padre pensò bene di lavarsi la coscienza risarcendo il figlio con una splendida carriera. Mario Calabresi ne approfittò volentieri, in nome di non si sa bene quale spirito di riconciliazione nazionale, scalando Repubblica e diventando infine (su proposta di Berlusconi, che voleva liberarsi di Giulio Anselmi) direttore della Stampa.
Questa è la storia, e non c’è molto da aggiungere. L’Italia fa notoriamente schifo, e la storia pubblica dell’Orfanello e dei suoi molti sponsor non fa eccezione.
Un’ultima osservazione sul ‘fatto personale’. È vero, Mario Calabresi mi ha cacciato dalla Stampa, e lo ha fatto nel peggiore dei modi: per un anno e mezzo non ha risposto né alle mail, né alle telefonate, né alle proposte di articoli; poi mi ha convocato per dirmi che scrivevo poco, e che La Stampa era in difficoltà. Questo fa di lui una persona con scarse qualità umane; quanto a me, ci sono ovviamente rimasto molto male. Ma il ‘caso Mario Calabresi’ resta in tutta la sua imponenza, e accusarmi di interesse personale è un’altra forma di ipocrisia. (the Front Page)
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