Che il liberismo sia, in tutto o in parte, “qualcosa di sinistra” ormai non lo pensano neppure Alesina e Giavazzi. La destra, invece, berlusconiana e non, ce l’ha messa tutta per dare ragione a chi nega che il liberismo possa diventare l’architrave su cui costruire un blocco liberale, conservatore e moderato in grado di modernizzare l’Italia.
In questo vuoto pneumatico si è inserito da alcuni giorni il bel manifesto liberal-liberista “Fermare il declino”. Poche cose, ma dette con chiarezza. E dieci proposte dalle quali - con trascurabili eccezioni - è davvero difficile dissociarsi: riduzione del debito pubblico, riduzione della spesa pubblica, liberalizzazioni, federalismo, privatizzazioni, abbattimento della pressione fiscale. Sono argomenti convincenti ed è inutile ripetere che nelle coscienze di molti quel manifesto sfonda una porta aperta. Tra il dire e il fare, però, c’è la stessa differenza che passa tra un editoriale illuminato del Corsera e i disegni di legge che lo dovrebbero tradurre in realtà. Imporre un’agenda liberista (ma anche soltanto di buonsenso) a questo paese richiede uno sforzo ulteriore rispetto alla semplice testimonianza. Quello che serve all’Italia è ormai chiaro da decenni. Quello che non è chiaro è come - e con chi - trasformare quei dieci punti in qualcosa di più di una dichiarazione di principi.
Il primo pregiudizio evidente del manifesto (e traspare da un numero consistente dei suoi firmatari) è quello anti-berlusconiano. Non è questione da poco. E dovrebbe interessare anche a chi, con Berlusconi o i berlusconiani, non ha mai avuto a che fare, o se n’è dissociato in tempi non sospetti. Il rischio, ancora una volta, è quello di rendere assolutamente impossibile ogni tentativo di scrivere un’agenda anti-statalista per l’Italia.
Silvio Berlusconi ha rappresentato per molti, con alterne fortune, l’unico catalizzatore in grado di tenere insieme una maggioranza costruita attorno a parole d’ordine e suggestioni che, almeno fino al 2001, erano molto simili a quelle di “Fermare il declino”. Scegliere di superare il berlusconismo è idea saggia. Chiedere a tutti quelli che con Berlusconi e il centrodestra italiano hanno condiviso un pezzo di strada di accettare l’idea che il Cav sia stato solo «un brigante» è, al contrario, pura follia politica. Rasenta la mistificazione anche il tentativo di farci credere «destra, sinistra, centro sono categorie che non significano più nulla». C’è stato un elettorato che in questi anni ha scelto «meno tasse» contro «le tasse sono bellissime». E ci sono stati governi che hanno cercato di riformare il sistema dell’istruzione, del pubblico impiego o del mercato del lavoro; contrapposti a forze di opposizione che stavano in piazza con la Cgil a difendere l’esistente e a gettarsi a peso morto contro qualsiasi cambiamento. Da una parte c’è sempre (o quasi) stato il centrodestra. Dall’altra il centrosinistra. È ridicolo, poi, negare che da decenni una parte della magistratura agisce con logiche e obbiettivi da partito politico, abusando del proprio ruolo senza neppure essere sottoposta al giudizio degli elettori come capita ai partiti veri. Eppure, ci sono state forze politiche che questa anomalia del sistema l’hanno denunciata (o almeno hanno provato a farlo) e altre che hanno negato l’evidenza. Per miopia o per convenienza di parte. I liberali-liberisti del nostro paese, quelli “à la page” che scrivono sui giornali giusti e insegnano nelle università cool dell’America buona, in genere si sono sempre schierati con i secondi. Per essere credibile, insomma, un’agenda di questo tipo dovrebbe risolvere almeno due fraintendimenti.
Il primo è che possa essere spendibile, indifferentemente, con il centrodestra, il centrosinistra o con il terzo polo perché - molto semplicemente - questo non accade e non è mai accaduto in nessuna parte del mondo. Il secondo è un problema di prospettiva: se i liberisti vogliono uscire dall’angolo dell’accademia - in cui troppo a lungo hanno deciso di rintanarsi, rifiutandosi sdegnosamente di sporcarsi le mani con la politica - per tentare di conquistare un’egemonia culturale, devono iniziare ad essere comprensibili anche alla gente comune. Si deve parlare, insomma, alla grande maggioranza silenziosa che vorrebbe poter scegliere “meno stato” perché sa benissimo che si traduce in italiano con “meno tasse”. Non si va da nessuna parte disprezzando la storia e il percorso di quel blocco sociale, culturale e politico che, nel bene e nel male, ha dato vita al centrodestra italiano negli ultimi decenni. Con la spocchia si va forse sui giornali, ma poi si finisce come Alleanza democratica. (l'Opinione)
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